Il Dalai Lama ha accusato il governo cinese di spiare i messaggi di posta elettronica del suo ufficio a Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio. In una affollata conferenza stampa ieri a Delhi , in occasione del 50 esimo anniversario della sua fuga in India, il leader spirituale dei tibetani ha raccontato di come le comunicazioni via e-mail tra il suo ufficio sulla collina di Mc Leodganj e la segreteria centrale del governo siano intercettate. In un caso specifico le autorità cinesi sarebbero intervenute per impedire che un visitatore ottenesse il visto di ingresso in India. La scorsa settimana un centro studi canadese aveva rivelato che una rete di pirati informatici cinesi spiava i computer di oltre 100 paesi e anche di quelli dei tibetani in esilio. Notizia seccamente smentita da Pechino.
Il Dalai Lama, che si è definito “figlio dell’India”, Paese dove è nato il buddismo, ha poi accusato Pechino di propagandare una realtà falsificata in Tibet e ha sfidato il governo di cinese chiedendo che lasci entrare liberamente i giornalisti e osservatori imparziali in modo che verifichino la disperata situazione dei diritti umani di 6 milioni di abitanti. “Se risulta che i tibetani sono contenti come i cinesi vogliono fare intendere – ha detto - allora siamo pronti ad abbandonare la nostra battaglia”
martedì 31 marzo 2009
Dalai Lama, 50 anni da rifugiato. "La Cina deve lasciare entrare i giornalisti in Tibet"
Era il 30 marzo del 1959 quando l'allora ventiquattrenne Dalai Lama attraversò in incognito il confine con l'India dopo un viaggio di 13 giorni attraverso i picchi dell'Himalaya. La notizia del suo arrivo si seppe solo il giorno dopo quando fu accolto dal primo ministro Jawaharlal Nehru e da altri leader della resistenza indiana.
Dopo 50 anni da rifugiato nella patria del buddismo, il leader tibetano é ancora il nemico numero uno della Cina e il suo movimento non violento per i diritti di 6 milioni di tibetani é ancora una delle spine del fianco del governo di Pechino. Definendosi "figlio dell'India" per i profondi legami spirituali e religiosi e presentatosi alla stampa con il "tikka" sulla fronte che per gli induisti rappresenta il “terzo occhio” della conoscenza, il Dalai Lama ha fatto il punto oggi a Nuova Delhi sul suo mezzo secolo di esilio forzato e sui rapporti con la Cina soprattutto dopo il rifiuto del visto di ingresso da parte del Sudafrica e il recente attacco dei pirati informatici cinesi.
"Mi dispiace di non aver potuto incontrare i miei vecchi amici Mandela e l'arcivescovo Tutu - ha detto - ma il rifiuto del visto ha sollevato un tale clamore nel mondo che mi trovo ora a dover ringraziare sinceramente i cinesi per tanta pubblicitá". La prevista conferenza dei premi Nobel in Sudafrica per la pace è infatti stata sospesa.
Facendo poi un excursus storico degli otto round di negoziati con le autoritá cinesi finora infruttuosi, ha detto che la questione "non é il diritto al mio ritorno in Tibet", quanto “i diritti di 6 milioni di tibetani”. “Se noi siamo rifugiati qui in India – ha aggiunto – non è perché siamo fuggiti ad un disastro naturale o a una guerra civile, ma per la situazione disperata del rispetto dei diritti umani in Tibet”. Il leader spirituale, che si è recato in mattinata in un pellegrinaggio interreligioso in otto centri di culto nella capitale, ha poi attaccato Pechino per la sua propaganda “rosa” che distorce la realtà in Tibet, come nel caso della commemorazione del 28 marzo del “Serfs Emancipation Day” (il giorno della liberazione dei servi) che in realtà segna l’inizio della repressione della rivolta di Lhasa, ma che Pechino celebra come il rovesciamento dell’ordine feudale tibetano. “Se veramente la situazione è rosea come i cinesi la dipingono – ha detto – allora non vedo il bisogno di chiudere il Tibet agli osservatori stranieri e di schierare l’esercito e i carri armati in ogni angolo”.
Rivolgendosi ai giornalisti, il Dalai Lama, ha fatto appello al governo cinese perché permetta i giornalisti e ai turisti stranieri di visitare il Tibet. “Andate a vedere se veramente i tibetani sono contenti come i cinesi vogliono far intendere. Se è davvero così, se è vero che sono felici della loro condizione, allora noi rinunciamo alla nostra battaglia”.
Il settantatreenne leader spirituale è anche intervenuto a proposito della crisi economica mondiale, un tema che sarà al centro della riunione del G20 prevista a Londra . “Sono ignorante in materia economica – ha ammesso – ma penso che le forze di mercato non piovano da cielo, ma sono frutto di azioni umane e non si possono quindi invocare come cause della crisi. E’ una contraddizione”. La vera causa invece “è la mancanza di principi, l’ipocrisia e la disonestà”.
Rispondendo invece ad una domanda se non avesse rimpianti in questi 50 anni di esilio, il Dalai Lama ha detto che “da quando ho 16 anni le decisioni che ho preso si sono rivelate corrette” e ha citato il suo approccio moderato della “via di mezzo” sull’autonomia per il Tibet, che era stato messo in discussione un anno fa, ma che la comunità tibetana ha di nuovo confermato come strumento di rivendicazione politica.
Dopo 50 anni da rifugiato nella patria del buddismo, il leader tibetano é ancora il nemico numero uno della Cina e il suo movimento non violento per i diritti di 6 milioni di tibetani é ancora una delle spine del fianco del governo di Pechino. Definendosi "figlio dell'India" per i profondi legami spirituali e religiosi e presentatosi alla stampa con il "tikka" sulla fronte che per gli induisti rappresenta il “terzo occhio” della conoscenza, il Dalai Lama ha fatto il punto oggi a Nuova Delhi sul suo mezzo secolo di esilio forzato e sui rapporti con la Cina soprattutto dopo il rifiuto del visto di ingresso da parte del Sudafrica e il recente attacco dei pirati informatici cinesi.
"Mi dispiace di non aver potuto incontrare i miei vecchi amici Mandela e l'arcivescovo Tutu - ha detto - ma il rifiuto del visto ha sollevato un tale clamore nel mondo che mi trovo ora a dover ringraziare sinceramente i cinesi per tanta pubblicitá". La prevista conferenza dei premi Nobel in Sudafrica per la pace è infatti stata sospesa.
Facendo poi un excursus storico degli otto round di negoziati con le autoritá cinesi finora infruttuosi, ha detto che la questione "non é il diritto al mio ritorno in Tibet", quanto “i diritti di 6 milioni di tibetani”. “Se noi siamo rifugiati qui in India – ha aggiunto – non è perché siamo fuggiti ad un disastro naturale o a una guerra civile, ma per la situazione disperata del rispetto dei diritti umani in Tibet”. Il leader spirituale, che si è recato in mattinata in un pellegrinaggio interreligioso in otto centri di culto nella capitale, ha poi attaccato Pechino per la sua propaganda “rosa” che distorce la realtà in Tibet, come nel caso della commemorazione del 28 marzo del “Serfs Emancipation Day” (il giorno della liberazione dei servi) che in realtà segna l’inizio della repressione della rivolta di Lhasa, ma che Pechino celebra come il rovesciamento dell’ordine feudale tibetano. “Se veramente la situazione è rosea come i cinesi la dipingono – ha detto – allora non vedo il bisogno di chiudere il Tibet agli osservatori stranieri e di schierare l’esercito e i carri armati in ogni angolo”.
Rivolgendosi ai giornalisti, il Dalai Lama, ha fatto appello al governo cinese perché permetta i giornalisti e ai turisti stranieri di visitare il Tibet. “Andate a vedere se veramente i tibetani sono contenti come i cinesi vogliono far intendere. Se è davvero così, se è vero che sono felici della loro condizione, allora noi rinunciamo alla nostra battaglia”.
Il settantatreenne leader spirituale è anche intervenuto a proposito della crisi economica mondiale, un tema che sarà al centro della riunione del G20 prevista a Londra . “Sono ignorante in materia economica – ha ammesso – ma penso che le forze di mercato non piovano da cielo, ma sono frutto di azioni umane e non si possono quindi invocare come cause della crisi. E’ una contraddizione”. La vera causa invece “è la mancanza di principi, l’ipocrisia e la disonestà”.
Rispondendo invece ad una domanda se non avesse rimpianti in questi 50 anni di esilio, il Dalai Lama ha detto che “da quando ho 16 anni le decisioni che ho preso si sono rivelate corrette” e ha citato il suo approccio moderato della “via di mezzo” sull’autonomia per il Tibet, che era stato messo in discussione un anno fa, ma che la comunità tibetana ha di nuovo confermato come strumento di rivendicazione politica.
Rahul Gandhi, inizia il suo tour de force elettorale in India
Su Apcom
E’ iniziata ufficialmente oggi la campagna elettorale di Rahul Gandhi che ha scelto Wardha, una della città del Mahatma nello stato Maharasthra, come prima tappa di un “tour-de-force” che prevede quattro comizi al giorno.
Il primogenito di Sonia ed erede designato del partito del Congresso, presenterà la sua candidatura il prossimo 4 aprile nel collegio di Amethi, la roccaforte di famiglia che sorge nello stato dell’Uttar Pradesh, lo stato chiave da 190 milioni di abitanti dove si giocano i destini politici dei governi di Nuova Delhi. Rahul, nella tradizionale casacca bianca e sandali di cuoio come usava indossare suo padre Rajiv, si propone come il “volto giovane” nello storico partito dei Nehru-Gandhi che ha dominato la storia dell’India indipendente, ma che nelle ultime elezioni ha visto una notevole erosione di consensi a causa dell’avanzata della destra indù e dei potenti partiti regionali. A parte la circoscrizione della capitale New Delhi, il Congresso è praticamente assente nel Nord dell’India, mentre in Maharastra (lo stato di Mumbai) e nel popoloso stato meridionale del Tamil Nadu dipende da alleanze ballerine.
Da quando due anni fa è entrato nei vertici del Congresso, il trentottenne Rahul ha iniziato un apprendistato politico da premier sotto le ali protettive di Manmohan Singh. Ma è un ruolo che lo vede molto cauto e riluttante, nonostante le pressioni interne e nonostante il forte consenso popolare di cui gode e che lo ha già proiettato come futuro leader. Nei manifesti elettorali però il suo volto compare accanto al premier Manmohan Singh, il candidato ufficiale (recentemente sottoposto a una operazione di by pass) e la madre Sonia, la quale ha reiterato il suo rifiuto a occupare un ruolo di governo come aveva già espresso nel 2004 all’indomani del trionfo elettorale sul Bjp.
In questa “triade” di poteri, Rahul almeno per ora è la “macchina da guerra” per raggiungere l’obiettivo prefissato dei 200 seggi nel Lok Sabha (la camera bassa) composta da 543 seggi. Ma se il Congresso sarà confermato il 16 maggio, quando ci sarà lo spoglio, difficilmente Rahul sarà “cooptato” nel governo. Il suo principale obiettivo nei prossimi due anni è quello di riformare l’ala giovanile del Congresso, un partito oggi dominato da nepotismo e corruzione. Nei suoi frequenti viaggi “alla scoperta dell’India” Rahul si è accorto che i direttivi dei movimenti giovanili del Congresso erano gli stessi negli ultimi dieci anni e che per un giovane era praticamente impossibile entrare in politica. Il suo principale impegno è ora di democratizzare il partito attraverso elezioni e sistemi meritocratici in modo da ristabilire i contatti con le nuove generazioni e con la grande massa delle caste basse e dei “dalit” passati dalla parte di Kumari Mayawati, la regina degli “ex intoccabili” dell’Uttar Pradesh e aspirante premier.
E’ iniziata ufficialmente oggi la campagna elettorale di Rahul Gandhi che ha scelto Wardha, una della città del Mahatma nello stato Maharasthra, come prima tappa di un “tour-de-force” che prevede quattro comizi al giorno.
Il primogenito di Sonia ed erede designato del partito del Congresso, presenterà la sua candidatura il prossimo 4 aprile nel collegio di Amethi, la roccaforte di famiglia che sorge nello stato dell’Uttar Pradesh, lo stato chiave da 190 milioni di abitanti dove si giocano i destini politici dei governi di Nuova Delhi. Rahul, nella tradizionale casacca bianca e sandali di cuoio come usava indossare suo padre Rajiv, si propone come il “volto giovane” nello storico partito dei Nehru-Gandhi che ha dominato la storia dell’India indipendente, ma che nelle ultime elezioni ha visto una notevole erosione di consensi a causa dell’avanzata della destra indù e dei potenti partiti regionali. A parte la circoscrizione della capitale New Delhi, il Congresso è praticamente assente nel Nord dell’India, mentre in Maharastra (lo stato di Mumbai) e nel popoloso stato meridionale del Tamil Nadu dipende da alleanze ballerine.
Da quando due anni fa è entrato nei vertici del Congresso, il trentottenne Rahul ha iniziato un apprendistato politico da premier sotto le ali protettive di Manmohan Singh. Ma è un ruolo che lo vede molto cauto e riluttante, nonostante le pressioni interne e nonostante il forte consenso popolare di cui gode e che lo ha già proiettato come futuro leader. Nei manifesti elettorali però il suo volto compare accanto al premier Manmohan Singh, il candidato ufficiale (recentemente sottoposto a una operazione di by pass) e la madre Sonia, la quale ha reiterato il suo rifiuto a occupare un ruolo di governo come aveva già espresso nel 2004 all’indomani del trionfo elettorale sul Bjp.
In questa “triade” di poteri, Rahul almeno per ora è la “macchina da guerra” per raggiungere l’obiettivo prefissato dei 200 seggi nel Lok Sabha (la camera bassa) composta da 543 seggi. Ma se il Congresso sarà confermato il 16 maggio, quando ci sarà lo spoglio, difficilmente Rahul sarà “cooptato” nel governo. Il suo principale obiettivo nei prossimi due anni è quello di riformare l’ala giovanile del Congresso, un partito oggi dominato da nepotismo e corruzione. Nei suoi frequenti viaggi “alla scoperta dell’India” Rahul si è accorto che i direttivi dei movimenti giovanili del Congresso erano gli stessi negli ultimi dieci anni e che per un giovane era praticamente impossibile entrare in politica. Il suo principale impegno è ora di democratizzare il partito attraverso elezioni e sistemi meritocratici in modo da ristabilire i contatti con le nuove generazioni e con la grande massa delle caste basse e dei “dalit” passati dalla parte di Kumari Mayawati, la regina degli “ex intoccabili” dell’Uttar Pradesh e aspirante premier.
domenica 29 marzo 2009
Lahore, assedio a accademia della polizia
In onda su Radio Vaticana
Centinaia di poliziotti sarebbero intrappolati all’interno di una caserma nei pressi di Lahore presa d’assalto poco dopo l’alba da una commando di attentatori armati di mitragliatori e bombe a mano. Le forze speciali pakistane che hanno circondato l’area e lanciato gas lacrimogeni sono impegnate da alcune ore in un violento scontro a fuoco con gli assalitori che si trovano all’interno dell’edificio utilizzato come accademia della polizia. Secondo testimonianze gli attentatori sono 7 o 8 e indossano uniformi della polizia. Almeno 8 forti esplosioni si sono sentite da quando è iniziato l’assedio. Il centro di addestramento che occupa una vasta superficie si trova in una cittadina fuori Lahore a pochi chilometri dal valico di confine con l’India.
Secondo una prima ricostruzione, questo ennesimo attacco potrebbe avere delle somiglianze con quello avvenuto sempre a Lahore il 2 marzo contro la nazionale di cricket dello Sri Lanka. Anche il quel caso gli attentatori, che sono riusciti a fuggire, avevano un equipaggiamento e un addestramento militare.
Centinaia di poliziotti sarebbero intrappolati all’interno di una caserma nei pressi di Lahore presa d’assalto poco dopo l’alba da una commando di attentatori armati di mitragliatori e bombe a mano. Le forze speciali pakistane che hanno circondato l’area e lanciato gas lacrimogeni sono impegnate da alcune ore in un violento scontro a fuoco con gli assalitori che si trovano all’interno dell’edificio utilizzato come accademia della polizia. Secondo testimonianze gli attentatori sono 7 o 8 e indossano uniformi della polizia. Almeno 8 forti esplosioni si sono sentite da quando è iniziato l’assedio. Il centro di addestramento che occupa una vasta superficie si trova in una cittadina fuori Lahore a pochi chilometri dal valico di confine con l’India.
Secondo una prima ricostruzione, questo ennesimo attacco potrebbe avere delle somiglianze con quello avvenuto sempre a Lahore il 2 marzo contro la nazionale di cricket dello Sri Lanka. Anche il quel caso gli attentatori, che sono riusciti a fuggire, avevano un equipaggiamento e un addestramento militare.
sabato 28 marzo 2009
Varun Gandhi arrestato per il comizio razzista
Su Apcom
Varun Gandhi, il nipote ribelle di Indira Gandhi, è stato arrestato stamattina per i commenti razzisti e antimussulmani contenuti in un suo comizio tenuto nel collegio di Pilibhit, nello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh dove è candidato per le prossime elezioni generali che inizieranno il 16 aprile. Varun, 29 anni, milita nelle file per il partito indù- nazionalista del Bjp (Bharathya Janata Party).
Dopo essersi presentato spontaneamente ai magistrati di Pilibhit, è stato sottoposto a custodia cautelare fino a lunedì. Centinaia di sostenitori l’hanno accompagnato in corteo fino al tribunale sventolando bandiere arancioni e tridenti, simbolo del dio Ram. Alcuni dimostranti sono rimasti feriti in tafferugli e sassaiole con la polizia. Prima di arrendersi alle autorità giudiziarie, Varun ha detto ai giornalisti di essere vittima di un “complotto” che è stato montato contro di lui e di “credere nei propri principi ed essere pronto a battersi per difenderli”.
In due occasioni diverse, davanti alle telecamere, il giovane Gandhi aveva insultato la comunità mussulmana e minacciato di “tagliare le mani” a coloro che avrebbero colpito gli indù.
Le dichiarazioni avevano sollevato un fuoco di critiche da parte del partito del Congresso e anche dei cugini Rahul e Priyanka (figli di Sonia) che lo hanno accusato di tradire i principi della famiglia. Secondo Kapil Sibal, uno dei veterani del Congresso, “l’arresto di Varun rappresenta una messa in scena organizzata da Advani”, l’ultraottantenne leader del partito indu-nazionalista e principale rivale del premier Manmohan Singh per la poltrona di primo ministro.
L’arresto di Varun rischia di creare nuova tensione tra gli induisti e la minoranza mussulmana (il 14% della popolazione) in Uttar Pradesh, lo stato dove sorge Ayodhya, dove nel 1992 i radicali indù hanno distrutto una moschea scatenando un’ondata di violenza e attentati in tutto il Paese.
Varun Gandhi, il nipote ribelle di Indira Gandhi, è stato arrestato stamattina per i commenti razzisti e antimussulmani contenuti in un suo comizio tenuto nel collegio di Pilibhit, nello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh dove è candidato per le prossime elezioni generali che inizieranno il 16 aprile. Varun, 29 anni, milita nelle file per il partito indù- nazionalista del Bjp (Bharathya Janata Party).
Dopo essersi presentato spontaneamente ai magistrati di Pilibhit, è stato sottoposto a custodia cautelare fino a lunedì. Centinaia di sostenitori l’hanno accompagnato in corteo fino al tribunale sventolando bandiere arancioni e tridenti, simbolo del dio Ram. Alcuni dimostranti sono rimasti feriti in tafferugli e sassaiole con la polizia. Prima di arrendersi alle autorità giudiziarie, Varun ha detto ai giornalisti di essere vittima di un “complotto” che è stato montato contro di lui e di “credere nei propri principi ed essere pronto a battersi per difenderli”.
In due occasioni diverse, davanti alle telecamere, il giovane Gandhi aveva insultato la comunità mussulmana e minacciato di “tagliare le mani” a coloro che avrebbero colpito gli indù.
Le dichiarazioni avevano sollevato un fuoco di critiche da parte del partito del Congresso e anche dei cugini Rahul e Priyanka (figli di Sonia) che lo hanno accusato di tradire i principi della famiglia. Secondo Kapil Sibal, uno dei veterani del Congresso, “l’arresto di Varun rappresenta una messa in scena organizzata da Advani”, l’ultraottantenne leader del partito indu-nazionalista e principale rivale del premier Manmohan Singh per la poltrona di primo ministro.
L’arresto di Varun rischia di creare nuova tensione tra gli induisti e la minoranza mussulmana (il 14% della popolazione) in Uttar Pradesh, lo stato dove sorge Ayodhya, dove nel 1992 i radicali indù hanno distrutto una moschea scatenando un’ondata di violenza e attentati in tutto il Paese.
venerdì 27 marzo 2009
Pakistan, attacco a una mosche sulla strada per Khyber Pass
Ci sarebbero ancora molti fedeli intrappolati nelle macerie di una moschea completamente distrutta da un presunto attentato suicida che per ora non è stato rivendicato. L’attacco è avvenuto durante la preghiera del venerdì nella cittadina di Jamrud, zona tribale del nord ovest, lungo la strada che porta al passo Khyber, il valico di frontiera con l’Afghanistan dove transita la maggior parte dei rifornimenti diretti alle forze Nato. Secondo una prima ricostruzione un presunto kamikaze si sarebbe fatto scoppiare tra la folla dei fedeli, i soccorritori che sono ancora al lavoro, hanno estratto una cinquantina di corpi dalle macerie. Ma ci sarebbero molti feriti in gravi condizioni.
Nella regione di Jamrud operano diversi gruppi militanti in rivalità tra di loro per il controllo del Khyber Pass e responsabili di numerosi attacchi ai convogli militari diretti in Afghanistan. Questa ennesima strage mette nuovamente in discussione le effettive capacità del governo di Islamabad di fronteggiare i gruppi estremisti islamici e lancia un nuovo avvertimento per la Casa Bianca a poche ore dall’annuncio del presidente Barak Obama sulla nuova strategia di guerra in Afghanistan.
Nella regione di Jamrud operano diversi gruppi militanti in rivalità tra di loro per il controllo del Khyber Pass e responsabili di numerosi attacchi ai convogli militari diretti in Afghanistan. Questa ennesima strage mette nuovamente in discussione le effettive capacità del governo di Islamabad di fronteggiare i gruppi estremisti islamici e lancia un nuovo avvertimento per la Casa Bianca a poche ore dall’annuncio del presidente Barak Obama sulla nuova strategia di guerra in Afghanistan.
giovedì 26 marzo 2009
Lusso, i marchi italiani puntano ancora su India
Le grandi firme mondiali del lusso, tra cui Zegna, Armani, Cavalli, si sono riunite a Nuova Delhi per studiare nuove strategie per sopravvivere alla recessione mondiale. L’occasione è stato il convegno annuale organizzato dall’International Herald Tribune” significativamente intitolato “Sustainable luxury” a cui hanno partecipato alcuni dei protagonisti del settore, tra cui Francois-Henri Pinault, presidente del colosso francese PPR e Mohan Murjani, il re indiano della griffe che ha accordi di distribuzione con Tommy Hilfinger, Jimmy Choo, Gucci, Kalvin Clain, per citarne alcuni.
Visto il momento di grande incertezza, nessuno è in grado di fare previsioni per il futuro, ma la sensazione è che i paesi emergenti come India e Cina siano ancora visti come potenziali sbocchi per i prodotti di lusso, anche se molte aspettative rischiano di essere sopravvalutate. “I grandi marchi hanno sbagliato le previsioni sui ricavi delle loro boutique – ha ammesso Murjani aggiungendo che molti “sono arrivati sul mercato indiano quando gli affitti commerciali erano ai massimi”. La crisi, ma anche le ripercussione delle stragi di Mumbai del 26 novembre, hanno fatto scoppiare la bolla speculativa immobiliare e i prezzi sono ora più abbordabili. Rimangono però due maggiori ostacoli secondo John Hooks, vicedirettore del gruppo Armani, la mancanza di infrastrutture adeguate e il peso eccessivo di dazi doganali e tasse di importazione. Armani ha aperto due suoi marchi nel centro commerciale “Emporio”, un tempio della moda di vetrocemento alla periferia di Nuova Delhi creato dal colosso immobiliare DLF che sta aprendo diversi “shopping mall” in stile occidentale rivoluzionando il tradizionale settore del piccolo commercio fatto di negozi famigliari e ambulanti.
Nonostante la crisi finanziaria, l’India rimane ancora molto appetibile per le griffe mondiali grazie all’emergente classe media a alla diffusione di stili e gusti occidentali soprattutto tra le nuove generazioni. Anzi per Roberto Cavalli, che veste le star del cinema di Bollywood, c’è ancora “spontaneità e naturalezza”, qualità che mancano per esempio a Hollywood dove vigono le rigide leggi dell’industria e non più della creatività. Oggi il mercato del lusso indiano rappresenta appena lo 0,4% sul totale mondiale, una quota irrisoria che però potrebbe aumentare in fretta se si crea una “cultura dello shopping” che sembra mancare ora e non solo per via della recessione.
Tra i partecipanti al convegno, moderato da Suzy Menkes, l’autorevole giornalista di moda dell’Herald Tribune, c’era anche Lapo Elkann che si occupa ora del neonato marchio “Italia Independent”, che nell’ultimo anno ha lanciato una gamma di occhiali da vista e da sole e altri accessori “al 100% concepiti, disegnati e prodotti in Italia” spiega ad Apcom dopo il suo intervento in cui ha citato Richard Branson e di Ralph Lauren come due modelli di imprenditorialità a cui si ispira. Rifiutandosi di parlare della crisi (“non ho dati e non voglio parlare a vanvera come fanno molti”), il nipote di Giovanni Agnelli è convinto che “popoli che hanno sofferto come gli indiani, gli africani, gli ebrei e gli armeni” hanno una marcia in più e quindi lavorano più duramente. “Viaggiando ho conosciuto bravissimi imprenditori indiani più di quanti ce ne siano in Italia” dove “siamo privilegiati e non ce ne rendiamo conto”. L’Italia deve “smettere di vivere sul passato e deve lavorare sul presente” ha aggiunto Lapo che si definisce fiero di “essere italiano e di vendere l’Italia nel mondo”.
mercoledì 25 marzo 2009
Bindeshwar Pathak vince premio per gabinetto salva-acqua
Ha dedicato oltre 30 anni a una crociata nazionale per l’uso dei servizi igienici e per eliminare l’umiliante lavoro degli “intoccabili” costretti a svuotare ogni giorno le latrine delle caste superiori. L’indiano Bindeshwar Pathak, 66 anni, appartenente alla casta dei bramini e medico di professione, ha vinto il premio annuale “Stockholm Water Prize 2009” che è una sorta di Nobel per ricerche e innovazioni nel settore idrico e sanitario. In particolare Pathak è stato premiato per aver sviluppato uno speciale gabinetto collegato a due fosse settiche che utilizza poca acqua e che è usato da 1 milione e 200 mila famiglie. “E’ uno straordinario esempio di come una sola persona può migliorare il benessere di milioni” si legge nella citazione dello Stockholm International Water Institute che consegnerà il premio (che consiste in 150 mila dollari) in una cerimonia il prossimo agosto. Fondatore nel 1970 di un’organizzazione non governativa, la Sulabh International Social Service Organization (che si occupa di diffondere la “cultura della toilette”) il dottor Pathak ha già ricevuto in passato diversi riconoscimenti indiani e internazionali per il suo impegno nel settore igienico-sanitario. E’ anche noto per avere realizzato a Nuova Delhi un originale Museo del Gabinetto, dove è illustrata la storia dei servizi igienici fin dal 2500 a.c.
Metà delle case in India, ovvero 110 milioni sono prive di gabinetti e oltre 650 milioni di persone ogni giorno lasciano i propri escrementi all’aperto lungo i fiumi o lungo i binari della ferrovia.
Contro la diffusa pratica del “defecare all’aperto” e contro la discriminazione sociale dei “raccoglitori di escrementi” si batte da diversi anni Pathak che è convinto che i servizi igienici possano anche migliorare la salute pubblica favorendo quindi la prosperità nazionale. Molte delle infezioni che si sviluppano tra i ceti più poveri sono legati all’acqua contaminata e alla mancanza di fognature. Secondo dati dell’Unicef, ogni giorno in India muoiono mille bambini sotto i 5 anni per epatiti o per diarrea.
Il gabinetto “Sulab Shauchalaya” che richiede 1,5 litri di acqua (contro i dieci litri di uno tradizionale), è stato anche adottato dalle agenzie delle Nazioni Unite in molti progetti residenziali in particolare in Africa dove c’è scarsità di acqua. Tra le innovazioni di Pathak c’è anche un sistema che permette di trasformare gli escrementi umani in biogas per cucinare o per il riscaldamento.
Il 2008 era stato dichiarato “Anno dell’Igiene” dalle Nazioni Unite che avevano invitato alcune donne dell’organizzazione di Pathak, ex “scavengers” (quelli che girano nelle case a raccogliere gli escrementi con le mani nude) a partecipare a una sfilata di moda per beneficienza a Manhattan. Da due anni l’infaticabile Pathak organizza a Nuova Delhi con il patrocinio dell’Onu un “World Toilet Summit” a cui partecipano gli esperti mondiali del settore.
Metà delle case in India, ovvero 110 milioni sono prive di gabinetti e oltre 650 milioni di persone ogni giorno lasciano i propri escrementi all’aperto lungo i fiumi o lungo i binari della ferrovia.
Contro la diffusa pratica del “defecare all’aperto” e contro la discriminazione sociale dei “raccoglitori di escrementi” si batte da diversi anni Pathak che è convinto che i servizi igienici possano anche migliorare la salute pubblica favorendo quindi la prosperità nazionale. Molte delle infezioni che si sviluppano tra i ceti più poveri sono legati all’acqua contaminata e alla mancanza di fognature. Secondo dati dell’Unicef, ogni giorno in India muoiono mille bambini sotto i 5 anni per epatiti o per diarrea.
Il gabinetto “Sulab Shauchalaya” che richiede 1,5 litri di acqua (contro i dieci litri di uno tradizionale), è stato anche adottato dalle agenzie delle Nazioni Unite in molti progetti residenziali in particolare in Africa dove c’è scarsità di acqua. Tra le innovazioni di Pathak c’è anche un sistema che permette di trasformare gli escrementi umani in biogas per cucinare o per il riscaldamento.
Il 2008 era stato dichiarato “Anno dell’Igiene” dalle Nazioni Unite che avevano invitato alcune donne dell’organizzazione di Pathak, ex “scavengers” (quelli che girano nelle case a raccogliere gli escrementi con le mani nude) a partecipare a una sfilata di moda per beneficienza a Manhattan. Da due anni l’infaticabile Pathak organizza a Nuova Delhi con il patrocinio dell’Onu un “World Toilet Summit” a cui partecipano gli esperti mondiali del settore.
martedì 24 marzo 2009
India, duello elettorale tra i nipoti di Indira Gandhi
Su Apcom
A tre settimane dall’apertura delle urne si infiamma il clima elettorale in India con una nuova faida all’interno della famiglia Gandhi. A incrociare le lame sono due nipoti dell’ex premier Indira Gandhi che siedono sui lati opposti dello schieramento politico: Varun Gandhi, il giovane ribelle della dinastia passato nelle file della destra indù e Priyanka Gandhi, la figlia di Sonia, che pur avendo scelto di rimanere nell’ombra del Congresso, gode di un forte carisma politico, che sembra invece mancare al fratello e delfino designato Rahul. L’oggetto del contendere sono le frasi razziste e anti mussulmane pronunciate durante un comizio in Uttar Pradesh da Varun, candidato del partito indù-nazionalista Bharatiya Janata Party (Bjp, Partito del Popolo Indiano) trasmesse da alcune televisioni. Dopo aver verificato l’autenticità dei filmati, la Commissione Elettorale ha chiesto ieri al Bjp di rimuovere Varun dalla lista dei candidati in lizza nel collegio di Pilibhit, un piccolo centro dell’influente stato settentrionale dell’Uttar Pradesh e roccaforte elettorale della madre Maneka Gandhi, parlamentare e nota attivista per la difesa degli animali. Ai tempi del governo di Indira Gandhi, le due cognate, l’italiana Sonia (docile sposa di Rajiv Gandhi) e la battagliera Maneka (moglie di Sanjay Gandhi, morto mentre pilotava il suo aereo nel 1980) avevano già ingaggiato una feroce battaglia per conquistarsi i favori della famosa suocera. Da quando Maneka, rimasta vedova con il neonato Varun, se ne andò dalla storica residenza del numero 10 di Janpath sbattendo la porta, le due donne non si sono mai più rivolte la parola.
A dissotterrare l’ascia di guerra sono ora i cugini. Durante una visita oggi al collegio elettorale della madre di Rae Bareli, sempre in Uttar Pradesh, la trentasettenne Priyanka, ha accusato il cugino di tradire “i principi e i valori della famiglia” e di disonorare “coloro che sono vissuti e morti” per difendere questi valori. E’ stato uno dei rarissimi commenti di Priyanka davanti alla stampa a cui ha anche confidato di non avere alcuna ambizione di presentarsi alle elezioni di aprile-maggio, ma solo di sostenere la campagna della madre e del fratello, come aveva già fatto nel 2004. Criticando il cugino Varun che aveva giurato sui libri sacri dell’induismo di “tagliare le mani” ai mussulmani che avrebbero alzato le mani sugli indù, la figlia di Sonia ha affondato il coltello: “Gli consiglierei prima di leggere i libri della Gita (le antiche scritture filosofiche) e cercare di capirli a fondo” prima di parlare.
Il partito del Bjp ha finora difeso il suo candidato e nel pomeriggio un portavoce ha ribattuto di “non essere disposto a prendere lezioni di induismo da Priyanka”. Il duello è appena iniziato.
A tre settimane dall’apertura delle urne si infiamma il clima elettorale in India con una nuova faida all’interno della famiglia Gandhi. A incrociare le lame sono due nipoti dell’ex premier Indira Gandhi che siedono sui lati opposti dello schieramento politico: Varun Gandhi, il giovane ribelle della dinastia passato nelle file della destra indù e Priyanka Gandhi, la figlia di Sonia, che pur avendo scelto di rimanere nell’ombra del Congresso, gode di un forte carisma politico, che sembra invece mancare al fratello e delfino designato Rahul. L’oggetto del contendere sono le frasi razziste e anti mussulmane pronunciate durante un comizio in Uttar Pradesh da Varun, candidato del partito indù-nazionalista Bharatiya Janata Party (Bjp, Partito del Popolo Indiano) trasmesse da alcune televisioni. Dopo aver verificato l’autenticità dei filmati, la Commissione Elettorale ha chiesto ieri al Bjp di rimuovere Varun dalla lista dei candidati in lizza nel collegio di Pilibhit, un piccolo centro dell’influente stato settentrionale dell’Uttar Pradesh e roccaforte elettorale della madre Maneka Gandhi, parlamentare e nota attivista per la difesa degli animali. Ai tempi del governo di Indira Gandhi, le due cognate, l’italiana Sonia (docile sposa di Rajiv Gandhi) e la battagliera Maneka (moglie di Sanjay Gandhi, morto mentre pilotava il suo aereo nel 1980) avevano già ingaggiato una feroce battaglia per conquistarsi i favori della famosa suocera. Da quando Maneka, rimasta vedova con il neonato Varun, se ne andò dalla storica residenza del numero 10 di Janpath sbattendo la porta, le due donne non si sono mai più rivolte la parola.
A dissotterrare l’ascia di guerra sono ora i cugini. Durante una visita oggi al collegio elettorale della madre di Rae Bareli, sempre in Uttar Pradesh, la trentasettenne Priyanka, ha accusato il cugino di tradire “i principi e i valori della famiglia” e di disonorare “coloro che sono vissuti e morti” per difendere questi valori. E’ stato uno dei rarissimi commenti di Priyanka davanti alla stampa a cui ha anche confidato di non avere alcuna ambizione di presentarsi alle elezioni di aprile-maggio, ma solo di sostenere la campagna della madre e del fratello, come aveva già fatto nel 2004. Criticando il cugino Varun che aveva giurato sui libri sacri dell’induismo di “tagliare le mani” ai mussulmani che avrebbero alzato le mani sugli indù, la figlia di Sonia ha affondato il coltello: “Gli consiglierei prima di leggere i libri della Gita (le antiche scritture filosofiche) e cercare di capirli a fondo” prima di parlare.
Il partito del Bjp ha finora difeso il suo candidato e nel pomeriggio un portavoce ha ribattuto di “non essere disposto a prendere lezioni di induismo da Priyanka”. Il duello è appena iniziato.
domenica 22 marzo 2009
Tata Nano debutta domani a Mumbai
Quindici mesi dopo la sua presentazione al salone dell’auto di Nuova Delhi, la Tata Nano fa il suo debutto domani a Mumbai. A celebrare l’evento, che secondo molti è “rivoluzionario” per l’industria automobilistica, sarà Ratan Tata, il numero uno del colosso indiano Tata Motors in una spettacolare cerimonia. La Nano, la “Topolino” destinata a realizzare le aspirazioni di milioni di famiglie indiane, costerà sulle 120-130 mila rupie (circa 1800-1900 euro) per il modello base su strada, ma non sarà disponibile da subito. Le prenotazioni saranno possibili a partire dalla metà di aprile con un acconto di 70 mila rupie, ma occorrerà aspettare molti mesi prima di entrare in possesso della vettura. La produzione iniziale sarà di 30-50 mila unità, ma attualmente i modelli disponibili sarebbero solo alcune centinaia. Secondo indiscrezioni, i primi acquirenti saranno tirati a sorte.
La gestazione della Nano è stata piena di ostacoli. Il progetto industriale di Singur, vicino a Calcutta, è naufragato dopo mesi di violente e insanguinate contestazioni da parte dei contadini contro l’espropriazione delle terre agricole. La chiusura della fabbrica, che era terminata al 90%, ha causato pesanti perdite economiche e anche ritardi nel lancio della “people car” che in realtà doveva essere pronta lo scorso autunno in occasione del Diwali, il “Natale” degli induisti. Il nuovo stabilimento, ora a Sanand, in Gujarat, che è anche lo stato di origine della famiglia Tata, non sarà pronto che nel 2010 e in teoria dovrebbe sfornare 250 mila unità all’anno. La produzione è stata trasferita temporaneamente nella grande fabbrica di Pune e in un'altra unità produttiva nello stato settentrionale dell’Uttarkand. Ma il lancio della mini vettura a quattro porte e con un motore posteriore di 600 cc, è coinciso anche con una delle peggiori crisi del settore dell’auto. Difficilmente la Nano da sola riuscirà a ridare ossigeno al bilancio della Tata Motors che dopo l’acquisizione di Jaguar- Land Rover ha urgente bisogno di liquidità per pagare 2 miliardi di dollari di debiti. “Anche se vendesse 250 mila vetture all’anno - scriveva un esperto del settore facendo i conti in tasca a Ratan Tata – potrebbe aumentare solo del 3% il fatturato totale”.
La “mini car”, disegnata dall’italo-polacco Justin Norak, a capo di uno studio di progettazione torinese, rimane tuttavia l’oggetto del desiderio per la classe medio-piccola, quella che oggi va sulle due ruote e che si prevede farà la coda davanti ai concessionari. Il primo effetto “Nano” c’è già stato: il mercato dell’usato ha subito un ribasso del 15-20 per cento per quanto riguarda le utilitarie.
La gestazione della Nano è stata piena di ostacoli. Il progetto industriale di Singur, vicino a Calcutta, è naufragato dopo mesi di violente e insanguinate contestazioni da parte dei contadini contro l’espropriazione delle terre agricole. La chiusura della fabbrica, che era terminata al 90%, ha causato pesanti perdite economiche e anche ritardi nel lancio della “people car” che in realtà doveva essere pronta lo scorso autunno in occasione del Diwali, il “Natale” degli induisti. Il nuovo stabilimento, ora a Sanand, in Gujarat, che è anche lo stato di origine della famiglia Tata, non sarà pronto che nel 2010 e in teoria dovrebbe sfornare 250 mila unità all’anno. La produzione è stata trasferita temporaneamente nella grande fabbrica di Pune e in un'altra unità produttiva nello stato settentrionale dell’Uttarkand. Ma il lancio della mini vettura a quattro porte e con un motore posteriore di 600 cc, è coinciso anche con una delle peggiori crisi del settore dell’auto. Difficilmente la Nano da sola riuscirà a ridare ossigeno al bilancio della Tata Motors che dopo l’acquisizione di Jaguar- Land Rover ha urgente bisogno di liquidità per pagare 2 miliardi di dollari di debiti. “Anche se vendesse 250 mila vetture all’anno - scriveva un esperto del settore facendo i conti in tasca a Ratan Tata – potrebbe aumentare solo del 3% il fatturato totale”.
La “mini car”, disegnata dall’italo-polacco Justin Norak, a capo di uno studio di progettazione torinese, rimane tuttavia l’oggetto del desiderio per la classe medio-piccola, quella che oggi va sulle due ruote e che si prevede farà la coda davanti ai concessionari. Il primo effetto “Nano” c’è già stato: il mercato dell’usato ha subito un ribasso del 15-20 per cento per quanto riguarda le utilitarie.
India, i rag-pickers contro la privatizzazione dell’immondizia
Una mostra fotografica e una marcia di protesta a Nuova Delhi
I “kabariwalla”, i raccoglitori di rifiuti da riciclare, sono di nuovo sul piede di guerra a Nuova Delhi. Una settimana fa hanno iniziato una marcia pacifica di protesta contro la privatizzazione della raccolta dei rifiuti urbani e da ieri sono i protagonisti di una mostra fotografica sponsorizzata dal governo tedesco. Una metropoli da 17 milioni di abitanti come Nuova Delhi produce circa 8000 tonnellate di immondizia al giorno, ma solo il 5% delle case dispone di cassonetti municipali. Il resto di questa montagna di rifiuti è raccolta, trasportata e riciclata da un esercito di circa 200 mila “rag-pickers”, di solito poveri immigrati che riescono da questo loro mestiere fai-da-te a guadagnare circa 100 rupie al giorno (meno di due euro). Si calcola che il 20% dell’immondizia delle aree residenziali e il 59% di quella delle aree commerciale sia smaltita dai raccoglitori di carta, vetro, plastica e metallo che ogni mattina passano casa per casa.
“E’ un enorme servizio a costo zero per le autorità comunali – dice Bharati Chayrvedi, responsabile dell’organizzazione non governativa Chintan che ha organizzato una mostra sui “kabariwalla” con il fotografo tedesco Enrico Fabian – e che permette all’1% della popolazione di guadagnarsi da vivere”. L’associazione si occupa di migliorare le condizioni igieniche dei rag-pickers, di organizzare le scuole per i bambini e di informarli sui benefici del loro servizio alla comunità.
Nur Mohammed, che da 11 anni lavora alla discarica di Ghazipur, la più grande di Delhi, è emblematico, è davanti a una sua fotografia che lo ritrae chino ad ammassare le bottiglie di plastica in ceste di paglia. “Ho sei figli e lavorano tutti con me. Solo mia figlia che ha 10 anni da poco va alla scuola di Chintan” spiega aggiungendo che quello che guadagna “gli basta da mangiare”. Nur ha però dei gravi problemi di respirazione.
Circa tre anni fa le autorità municipali hanno iniziato ad affidare ad alcune società private la raccolta dei rifiuti nelle aree vicino alla centrale Connaught Place creando una “concorrenza” con il consolidato network di rag-pickers, commercianti di scarti e industria del riciclaggio. “I privati sono interessati solo al profitto – dicono gli ambientalisti – e siccome sono pagati a tonnellata pensano solo a riempire le discariche e non alla separazione dei rifiuti”.
I “kabariwalla”, i raccoglitori di rifiuti da riciclare, sono di nuovo sul piede di guerra a Nuova Delhi. Una settimana fa hanno iniziato una marcia pacifica di protesta contro la privatizzazione della raccolta dei rifiuti urbani e da ieri sono i protagonisti di una mostra fotografica sponsorizzata dal governo tedesco. Una metropoli da 17 milioni di abitanti come Nuova Delhi produce circa 8000 tonnellate di immondizia al giorno, ma solo il 5% delle case dispone di cassonetti municipali. Il resto di questa montagna di rifiuti è raccolta, trasportata e riciclata da un esercito di circa 200 mila “rag-pickers”, di solito poveri immigrati che riescono da questo loro mestiere fai-da-te a guadagnare circa 100 rupie al giorno (meno di due euro). Si calcola che il 20% dell’immondizia delle aree residenziali e il 59% di quella delle aree commerciale sia smaltita dai raccoglitori di carta, vetro, plastica e metallo che ogni mattina passano casa per casa.
“E’ un enorme servizio a costo zero per le autorità comunali – dice Bharati Chayrvedi, responsabile dell’organizzazione non governativa Chintan che ha organizzato una mostra sui “kabariwalla” con il fotografo tedesco Enrico Fabian – e che permette all’1% della popolazione di guadagnarsi da vivere”. L’associazione si occupa di migliorare le condizioni igieniche dei rag-pickers, di organizzare le scuole per i bambini e di informarli sui benefici del loro servizio alla comunità.
Nur Mohammed, che da 11 anni lavora alla discarica di Ghazipur, la più grande di Delhi, è emblematico, è davanti a una sua fotografia che lo ritrae chino ad ammassare le bottiglie di plastica in ceste di paglia. “Ho sei figli e lavorano tutti con me. Solo mia figlia che ha 10 anni da poco va alla scuola di Chintan” spiega aggiungendo che quello che guadagna “gli basta da mangiare”. Nur ha però dei gravi problemi di respirazione.
Circa tre anni fa le autorità municipali hanno iniziato ad affidare ad alcune società private la raccolta dei rifiuti nelle aree vicino alla centrale Connaught Place creando una “concorrenza” con il consolidato network di rag-pickers, commercianti di scarti e industria del riciclaggio. “I privati sono interessati solo al profitto – dicono gli ambientalisti – e siccome sono pagati a tonnellata pensano solo a riempire le discariche e non alla separazione dei rifiuti”.
India, Violante Placido in un film di Bollywood
Su Il Giornale di oggi
Dopo il successo di “Millionaire”, un altro film squarcia il velo sul dramma dei bassifondi di Mumbai, questa volta però con una produzione e con un’attrice italiana, la sexy star Violante Placido. Da oggi nelle multisale di otto metropoli indiane, “Barah Aana” racconta in chiave comica le avventure di tre amici di generazioni diverse ma accumunati dalla sorte di essere “servitori” di padroni arroganti e sfruttatori. Ma a differenza del capolavoro del regista britannico Danny Boyle, vincitore di otto Oscar, non si tratta di una favola di poveri orfanelli che diventano milionari, ma piuttosto di uno spaccato di quotidiane miserie e vessazioni subite dalle schiere di autisti, servitori e domestici al servizio dell’emergente borghesia indiana.
“Barah Aana”, in lingua hindi con sottotitoli in inglese, inaugura un nuovo e inusuale filone “dark” o neorealista dell’industria cinematografica di Bollywood e non è un caso che ci sia una forte impronta italiana. Il merito di aver scoperto due anni fa il copione scritto e diretto dal regista esordiente Raja Menon è della giovane produttrice indipendente Giulia Achilli, che oggi vive e lavora a Mumbai e che è al suo secondo film dopo “Onde” (2006) diretto da Francesco Fei. “Uno degli aspetti dell’India che più mi ha colpito come un pugno nello stomaco è di vedere come sono trattate le classi subalterne” spiega Achilli che ha definito “Barah Aana” (il titolo si può tradurre dall’hindi come “fregato”) come una sorta di “Riso Amaro” del neorealismo indiano. E’ stata lei che ha voluto l’attrice Violante Placido a interpretare la bella e ammaliante turista Kate che poi si rileva un’astuta truffatrice. La figlia di Michele Placido, apparsa senza veli su Playboy di febbraio, è l’unica straniera nel cast dove spicca la presenza di Naseeruddin Shah, già noto al pubblico internazionale per “Matrimonio Indiano” di Mira Nair, vincitore del Leone D’oro a Venezia nel 2001. Con lui, che recita la parte dell’autista umiliato dalla padrona che lo accusa di “puzzare” e che non sa neppure il suo nome, c’è anche Vijay Raaz che interpreta il personaggio di Yadav, il portinaio che trascinerà la combriccola di amici in una torbida storia di sequestri di persona.
Il legame tra la Placido e l’India è destinato a continuare. L’attrice ritornerà presto per girare una puntata del suo prossimo lavoro che la vedrà impersonare la famosa e sfortunata pornodiva Moana Pozzi in una fiction prodotta da Sky Cinema, le cui riprese dovrebbero iniziare ad aprile. Certo sarà decisamente un'altra parte rispetto a quella interpretata in “Barah Aana” girato in poco più di un mese con esterni nella bidonville di Dharavi, una delle più grandi dell’Asia, nel cuore di Mumbai dove è stato realizzato anche “Millionaire”. L’altra connessione con l’Italia è lo sponsor Lavazza, proprietario della catena indiana di caffetterie “Barista”, che ha finanziato la produzione e che compare con il marchio in diverse inquadrature.
La pellicola di 97 minuti è stata presentata in anteprima all’Istituto di Cultura Italiana di New Delhi ed è una delle rare partecipazioni italiane a Bollywood, anche se non rientra nell’accordo bilaterale tra Italia e India sulla coproduzione audiovisiva siglato tre anni fa.
Dopo il successo di “Millionaire”, un altro film squarcia il velo sul dramma dei bassifondi di Mumbai, questa volta però con una produzione e con un’attrice italiana, la sexy star Violante Placido. Da oggi nelle multisale di otto metropoli indiane, “Barah Aana” racconta in chiave comica le avventure di tre amici di generazioni diverse ma accumunati dalla sorte di essere “servitori” di padroni arroganti e sfruttatori. Ma a differenza del capolavoro del regista britannico Danny Boyle, vincitore di otto Oscar, non si tratta di una favola di poveri orfanelli che diventano milionari, ma piuttosto di uno spaccato di quotidiane miserie e vessazioni subite dalle schiere di autisti, servitori e domestici al servizio dell’emergente borghesia indiana.
“Barah Aana”, in lingua hindi con sottotitoli in inglese, inaugura un nuovo e inusuale filone “dark” o neorealista dell’industria cinematografica di Bollywood e non è un caso che ci sia una forte impronta italiana. Il merito di aver scoperto due anni fa il copione scritto e diretto dal regista esordiente Raja Menon è della giovane produttrice indipendente Giulia Achilli, che oggi vive e lavora a Mumbai e che è al suo secondo film dopo “Onde” (2006) diretto da Francesco Fei. “Uno degli aspetti dell’India che più mi ha colpito come un pugno nello stomaco è di vedere come sono trattate le classi subalterne” spiega Achilli che ha definito “Barah Aana” (il titolo si può tradurre dall’hindi come “fregato”) come una sorta di “Riso Amaro” del neorealismo indiano. E’ stata lei che ha voluto l’attrice Violante Placido a interpretare la bella e ammaliante turista Kate che poi si rileva un’astuta truffatrice. La figlia di Michele Placido, apparsa senza veli su Playboy di febbraio, è l’unica straniera nel cast dove spicca la presenza di Naseeruddin Shah, già noto al pubblico internazionale per “Matrimonio Indiano” di Mira Nair, vincitore del Leone D’oro a Venezia nel 2001. Con lui, che recita la parte dell’autista umiliato dalla padrona che lo accusa di “puzzare” e che non sa neppure il suo nome, c’è anche Vijay Raaz che interpreta il personaggio di Yadav, il portinaio che trascinerà la combriccola di amici in una torbida storia di sequestri di persona.
Il legame tra la Placido e l’India è destinato a continuare. L’attrice ritornerà presto per girare una puntata del suo prossimo lavoro che la vedrà impersonare la famosa e sfortunata pornodiva Moana Pozzi in una fiction prodotta da Sky Cinema, le cui riprese dovrebbero iniziare ad aprile. Certo sarà decisamente un'altra parte rispetto a quella interpretata in “Barah Aana” girato in poco più di un mese con esterni nella bidonville di Dharavi, una delle più grandi dell’Asia, nel cuore di Mumbai dove è stato realizzato anche “Millionaire”. L’altra connessione con l’Italia è lo sponsor Lavazza, proprietario della catena indiana di caffetterie “Barista”, che ha finanziato la produzione e che compare con il marchio in diverse inquadrature.
La pellicola di 97 minuti è stata presentata in anteprima all’Istituto di Cultura Italiana di New Delhi ed è una delle rare partecipazioni italiane a Bollywood, anche se non rientra nell’accordo bilaterale tra Italia e India sulla coproduzione audiovisiva siglato tre anni fa.
venerdì 20 marzo 2009
Il nuovo capo della Cia in missione in India e Pakistan
I precari equilibri politici di Pakistan e Afghanistan e l’aumento del terrorismo in India continuano a preoccupare l’amministrazione di Barak Obama. Il nuovo capo della Cia, Leon Panetta, ha appena concluso una missione di due giorni in India dove ha incontrato i rappresentanti dell’intelligence insieme al ministro degli interni P.K. Chidambaran. E’ la sua prima visita all’estero da quando è stato nominato a capo dell’agenzia e segue di poco tempo la missione del direttore dell’FBI, Robert Mueller. I servizi segreti americani collaborano con gli indiani nell’inchiesta sull’attentato di Mumbai del 26 novembre attribuito a un gruppo islamico estremista pachistano. Sembra però che al centro dei colloqui di Panetta con la leadership indiana sia stato il Pakistan dove il presidente Asif Ali Zardari sta attraversando una difficile crisi politica e dove di recente Washington ha rafforzato la sua offensiva contro talebani e i militanti di Al Queda che si sono raggruppati nelle zone di confine del nord ovest pachistano. Il numero uno della Cia prosegue oggi per Islamabad dove incontrerà il generale Ashfaq Parvez Kayani, capo dell’esercito e il responsabile dell’Isi, i servizi segreti pachistani, Ahmad Shujaa Pasha, considerati entrambi filoamericani.
giovedì 19 marzo 2009
I mini attori di Slumdog chiedono un alloggio a Sonia
I piccoli protagonisti di “The Millionaire” sono stati ricevuti oggi da Sonia Gandhi, la leader del Congresso, il partito di maggioranza che ha comprato i diritti della colonna sonora del film vincitore di otto Oscar per la prossima campagna elettorale. Rubina Ali, 9 anni e Azharuddin Ismail, 10 anni, che abitano con le loro famiglie in casupole di lamiera nella grande baraccopoli di Dharavi a Mumbai, hanno presentato alla Gandhi una lettera di richiesta per avere un alloggio in muratura.
I due bambini erano accompagnati dai genitori che dopo il successo del film avevano accusato i produttori hollywoodiani di aver sfruttato i loro figli e di avere corrisposto somme modeste per un anno di riprese. Il padre di Azharuddin avrebbe già speso l’intero compenso per guarire dalla tubercolosi. Non è chiaro quale sia stata la risposta del partito del Congresso che avrebbe sborsato 200 mila dollari per la canzone “Jai Ho” scritta dal compositore A.R. Rahman, Oscar per la migliore colonna sonora. Il partito di Sonia intende usare la musica come inno in vista delle elezioni di aprile-maggio.
In serata i due piccoli artisti hanno sfilato sulla passerella della Settimana della Moda Indiana in corso a Nuova Delhi indossando gli abiti delle stiliste Ashema e Leena che hanno voluto “riportare sulla scena” i due bambini che, dopo aver partecipato alla fastosa consegna degli Oscar a Los Angeles, erano ritornati nella loro bidonville di Mumbai.
I due bambini erano accompagnati dai genitori che dopo il successo del film avevano accusato i produttori hollywoodiani di aver sfruttato i loro figli e di avere corrisposto somme modeste per un anno di riprese. Il padre di Azharuddin avrebbe già speso l’intero compenso per guarire dalla tubercolosi. Non è chiaro quale sia stata la risposta del partito del Congresso che avrebbe sborsato 200 mila dollari per la canzone “Jai Ho” scritta dal compositore A.R. Rahman, Oscar per la migliore colonna sonora. Il partito di Sonia intende usare la musica come inno in vista delle elezioni di aprile-maggio.
In serata i due piccoli artisti hanno sfilato sulla passerella della Settimana della Moda Indiana in corso a Nuova Delhi indossando gli abiti delle stiliste Ashema e Leena che hanno voluto “riportare sulla scena” i due bambini che, dopo aver partecipato alla fastosa consegna degli Oscar a Los Angeles, erano ritornati nella loro bidonville di Mumbai.
Tata Nano, 12 mesi di lista di attesa
India, un anno di lista di attesa per la Tata Nano
La mini-car sarà lanciata lunedì, ma ci sarebbero ritardi nella produzione
La Tata Nano sarà presente nei concessionari indiani a partire da lunedì, ma occorrerà aspettare ancora un anno per la consegna delle prime vetture. Secondo indiscrezioni del canale televisivo Ibn-Cnn, la casa automobilistica di Ratan Tata “avrebbe a disposizione soltanto 800 mini car” prodotte dallo stabilimento di Pune, in Maharashtra e da quello di Pantnagar, nel nord dell’India.
Questo nuovo slittamento della tanto attesa “topolino” da 100 mila rupie (2500 dollari) sarebbe dovuto a “complicazioni” nella produzione. Dopo la chiusura forzata dello stabilimento bengalese di Nandigram, vicino a Calcutta, a causa delle proteste dei contadini espropriati, Tata Motors ha deciso di trasferire la produzione nello stato nord occidentale del Gujarat dove è in costruzione uno stabilimento in grado di produrre 250 mila unità all’anno.
Secondo l’azienda, i concessionari accetteranno le prenotazioni dalla metà di aprile ma i tempi di attesa saranno di circa 12 mesi. Nonostante la crisi del settore che ha colpito anche l’India, la Nano, presentata per la prima volta al pubblico nel gennaio del 2008, ha suscitato un vasto interesse soprattutto tra la classe medio-bassa indiana che intende soddisfare il sogno di avere per la prima volta una quattro-ruote. Il ritardo potrebbe favorire i concorrenti, come l’alleanza tra Renault- Nissan Motor e Bajaj e quella tra Maruti Suzuki-Hyundai che hanno in serbo per i prossimi anni il lancio di utilitarie “low cost”.
La mini-car sarà lanciata lunedì, ma ci sarebbero ritardi nella produzione
La Tata Nano sarà presente nei concessionari indiani a partire da lunedì, ma occorrerà aspettare ancora un anno per la consegna delle prime vetture. Secondo indiscrezioni del canale televisivo Ibn-Cnn, la casa automobilistica di Ratan Tata “avrebbe a disposizione soltanto 800 mini car” prodotte dallo stabilimento di Pune, in Maharashtra e da quello di Pantnagar, nel nord dell’India.
Questo nuovo slittamento della tanto attesa “topolino” da 100 mila rupie (2500 dollari) sarebbe dovuto a “complicazioni” nella produzione. Dopo la chiusura forzata dello stabilimento bengalese di Nandigram, vicino a Calcutta, a causa delle proteste dei contadini espropriati, Tata Motors ha deciso di trasferire la produzione nello stato nord occidentale del Gujarat dove è in costruzione uno stabilimento in grado di produrre 250 mila unità all’anno.
Secondo l’azienda, i concessionari accetteranno le prenotazioni dalla metà di aprile ma i tempi di attesa saranno di circa 12 mesi. Nonostante la crisi del settore che ha colpito anche l’India, la Nano, presentata per la prima volta al pubblico nel gennaio del 2008, ha suscitato un vasto interesse soprattutto tra la classe medio-bassa indiana che intende soddisfare il sogno di avere per la prima volta una quattro-ruote. Il ritardo potrebbe favorire i concorrenti, come l’alleanza tra Renault- Nissan Motor e Bajaj e quella tra Maruti Suzuki-Hyundai che hanno in serbo per i prossimi anni il lancio di utilitarie “low cost”.
mercoledì 18 marzo 2009
Il ribelle Varun Gandhi denunciato per commenti antimussulmani
Varun Gandhi, il giovane ribelle della dinastia politica più famosa in India, è sotto il fuoco delle polemiche dopo un comizio anti mussulmano pronunciato in occasione della campagna per le prossime elezioni generali di aprile-maggio. Il nipote di Indira Gandhi, che milita tra le file del partito indu-nazionalista del Bjp, è stato denunciato per violazione del codice di condotta elettorale e isolato dal suo stesso partito che si è dissociato dalle dichiarazioni razziste. E’ un brutto colpo per il Bjp, il partito dell’opposizione guidato dall’ultraottantenne L.K Advani, che punta le sue carte proprio sulle nuove generazioni e sulla classe media.
Parlando ai suoi sostenitori, nel collegio elettorale di Pilibhit, nel nord del popoloso stato dell’Uttar Pradesh, Varun aveva minacciato di “tagliare la gola” ai mussulmani che “osano alzare le loro mani sugli indù” aggiungendo anche commenti offensivi sulla politica filo mussulmana seguita da sua zia (Sonia Gandhi). Il discorso, trasmesso in televisione e diffuso su “You Tube”, ha spinto la Commissione Elettorale Indiana a intervenire.
In una conferenza stampa oggi Varun ha detto di essere “vittima di una cospirazione politica” denunciando che le sue parole sono stare manomesse nella registrazione. Ha però difeso le sue idee nazionalistiche: “Sono fiero di essere un indù e un indiano”.
Il ventinovenne Vaun, che ha studiato economia a Londra, è considerato un astro emergente della politica indiana in rivalità con il più famoso cugino Rahul, l’erede politico del Congresso e proiettato come futuro primo ministro in “tandem” con l’anziano premier Manmohan Singh. A differenza del primogenito di Sonia, considerato timido e poco carismatico, Varun avrebbe una maggiore inclinazione come politico e oratore. Suo padre Sanjay, morto nel 1980 mentre faceva acrobazie con il suo aereo sopra i cieli di Nuova Delhi, era destinato alla successione politica di Indira Gandhi (assassinata un anno dopo) raccolta poi dal riluttante Rajiv, il marito di Sonia, anche lui andato incontro a un tragico destino.
La madre Maneka Gandhi, giornalista, ex ministro in più governi e fervente attivista a favore della protezione degli animali, è sempre stata in forte contrasto con la famiglia dei Gandhi. E’ considerata anche lei un “ribelle” che nel 2004 è stata rieletta in Parlamento nelle file del Bjp dal collegio elettorale di Pilibhit, ora “ceduto” all’unico figlio Varun, che dopo questo passo falso potrebbe vedere evaporare prematuramente le sue ambizioni politiche.
Parlando ai suoi sostenitori, nel collegio elettorale di Pilibhit, nel nord del popoloso stato dell’Uttar Pradesh, Varun aveva minacciato di “tagliare la gola” ai mussulmani che “osano alzare le loro mani sugli indù” aggiungendo anche commenti offensivi sulla politica filo mussulmana seguita da sua zia (Sonia Gandhi). Il discorso, trasmesso in televisione e diffuso su “You Tube”, ha spinto la Commissione Elettorale Indiana a intervenire.
In una conferenza stampa oggi Varun ha detto di essere “vittima di una cospirazione politica” denunciando che le sue parole sono stare manomesse nella registrazione. Ha però difeso le sue idee nazionalistiche: “Sono fiero di essere un indù e un indiano”.
Il ventinovenne Vaun, che ha studiato economia a Londra, è considerato un astro emergente della politica indiana in rivalità con il più famoso cugino Rahul, l’erede politico del Congresso e proiettato come futuro primo ministro in “tandem” con l’anziano premier Manmohan Singh. A differenza del primogenito di Sonia, considerato timido e poco carismatico, Varun avrebbe una maggiore inclinazione come politico e oratore. Suo padre Sanjay, morto nel 1980 mentre faceva acrobazie con il suo aereo sopra i cieli di Nuova Delhi, era destinato alla successione politica di Indira Gandhi (assassinata un anno dopo) raccolta poi dal riluttante Rajiv, il marito di Sonia, anche lui andato incontro a un tragico destino.
La madre Maneka Gandhi, giornalista, ex ministro in più governi e fervente attivista a favore della protezione degli animali, è sempre stata in forte contrasto con la famiglia dei Gandhi. E’ considerata anche lei un “ribelle” che nel 2004 è stata rieletta in Parlamento nelle file del Bjp dal collegio elettorale di Pilibhit, ora “ceduto” all’unico figlio Varun, che dopo questo passo falso potrebbe vedere evaporare prematuramente le sue ambizioni politiche.
domenica 15 marzo 2009
India, esordio del film indo-italiano “Barah Aana”
Uscirà nei cinema indiani il prossimo 20 marzo il film italo-indiano “Barah Aana” ambientato nella stessa bidonville di Mumbai dove è stato girato “Millionaire”, vincitore di otto Oscar. La pellicola, in lingua hindi, è stata realizzata dalla produttrice indipendente Giulia Achilli insieme all’americano Raj Yarasi e al regista indiano Raja Menon. E’ uno dei rari esempi di una partecipazione italiana diretta nella produzione di un film di Bollywood, la prolifica industria cinematografica indiana. Al cast partecipa anche l’attrice Violante Placido.
“Barah Aana” (espressione che in hindi significa “truffato”) è la tragicommedia di tre personaggi che vivono nello slum di Dharavi e che subiscono quotidiane sevizie da parte dei loro datori di lavoro. Mentre “Millionaire” apriva uno squarcio drammatico sulle condizioni di vita dei bambini delle bidonville, “Barah Aana” traccia un quadro non molto lusinghiero della nuova società arricchita indiana e del suo rapporto con la servitù. E’ un tasto delicato questo per l’India, un paese dominato dal sistema castale e dove il divario tra benessere e povertà sta crescendo di pari passo con il boom economico.
“Uno degli aspetti dell’India che più mi ha colpito come un pugno nello stomaco è di vedere come sono trattate le classi subalterne” spiega Achilli che ha definito “Barah Aana” come una sorta di “Riso Amaro” del neorealismo indiano. Da due anni a Mumbai, dove ha lavorato come consulente per favorire gli scambi tra società italiane e indiane nel campo cinematografico, è al suo secondo film come produttrice dopo “Onde” (2006) diretto da Francesco Fei.
La trama si sviluppa intorno alle vessazioni quotidiane subite da tre amici di diverse generazioni: Shukla, l’autista (Naseeruddin Shah, interprete del noto film “Monsoon Wedding” della regista Mira Nair), Yadav, il portinaio (Vijay Raaz, anche lui un personaggio di “Monsoon Wedding”) e Aman, il cameriere (Arjun Mathur). I tre condividono una stanzetta nella baraccopoli di Dharavi, la più grande di Mumbai e anche dell’Asia, che pullula della vita e dei colori dell’India autentica. Alla fine della giornata di lavoro si ritrovano su un’altura accanto alla carcassa di un camion da cui si vedono le luci dei grattacieli dove abitano i ricchi, coloro che “si comprano le macchine da 200 mila rupie e non hanno 5000 rupie per salvare la vita di un bambino” come si sfoga una sera Yadav, il personaggio centrale del film, che spinto dalle circostanze, coinvolge gli amici in una storia dalle conseguenze drammatiche.
Pakistan, Zardari ha ceduto. Ritorna il giudice Chaudhry
Dopo una notte di discussioni con il primo ministro Gilani e il capo dell’esercito, il generale Kayani, il presidente Zardari si è piegato alle pressioni dell’opposizione che oggi minacciava di marciare su Islamabad. La crisi politica con il rivale ed ex alleato Nawaz Sharif, che rischiava di destabilizzare il Paese consegnandolo ancora una volta nelle mani dei generali, è stata disinnescata e per molti è l’inizio di un nuovo capitolo nella travagliata storia del Pakistan. Zardari ha ceduto su tutta la linea. Lo scomodo capo della Corte Suprema, Iftikar Chaudry, esautorato da Musharraf nel 2007, sarà re integrato dal 21 marzo e con lui anche gli altri giudici. I dimostranti arrestati in questi giorni saranno rilasciati. Il governo interverrà anche per rimuovere il divieto di assumere cariche pubbliche imposto a Sharif e al fratello Shahbaz lo scorso mese e che aveva innescato l’ondata di proteste dell’opposizione.
L’ex premier Sharif e il suo partito, la Lega Mussulmana Pachistana, escono fortemente rafforzati, tanto da poter rivendicare un ritorno nella coalizione di governo. Sempre più isolato sembra invece Zardari, che ha già escluso le dimissioni, ma che appare sempre più subordinato alla volontà del generale Kayani, il vero vincitore di questa battaglia di poteri.
L’ex premier Sharif e il suo partito, la Lega Mussulmana Pachistana, escono fortemente rafforzati, tanto da poter rivendicare un ritorno nella coalizione di governo. Sempre più isolato sembra invece Zardari, che ha già escluso le dimissioni, ma che appare sempre più subordinato alla volontà del generale Kayani, il vero vincitore di questa battaglia di poteri.
Pakistan, Sharif sfida gli arresti domiciliari
Nonostante i tentativi di riconciliazione e l’intervento della Casa Bianca, il presidente Asif Ali Zardari e il suo rivale Nawaz Sharif sembrano ormai avviati verso lo scontro frontale. Sfidando gli arresti domiciliari, il leader dell’opposizione ha lasciato la sua casa di Lahore per recarsi alla manifestazione di protesta dei giudici, avvocati e magistrati che dovrebbe culminare domani con un sit in davanti al parlamento di Islamabad. In queste ore il ministero degli interni pachistano ha precisato che Sharif e il fratello Shahbaz non sono stati arrestati, ma posti sotto protezione per il timore di attentati.
Parlando ai sostenitori del suo partito, prima di lasciare la sua residenza, l’ex premier Sharif aveva accusato il governo di instaurare “uno stato di polizia e di usare metodi illegali per fermare la marcia dei giudici”. I dimostranti si sarebbero radunati in queste ore davanti al palazzo giudiziario di Lahore dove la polizia è intervenuta con i gas lacrimogeni e manganelli per disperdere la folla. Ci sarebbero numerosi feriti.
In un tentativo di disinnescare la crisi, ieri Zardari aveva deciso di ammorbidire la sua posizione e di presentare un appello contro il verdetto della Corte Suprema che lo scorso mese aveva escluso i fratelli Sharif dalle cariche pubbliche e che aveva innescato le proteste.
Ma la vecchia rivalità, che covava sotto le ceneri, è ora riesplosa, con il rischio, paventato da molti, che l’esercito guidato dal generale filo occidentale Ashfaq Kayani, possa ancora una volta decidere i destini del Paese.
Parlando ai sostenitori del suo partito, prima di lasciare la sua residenza, l’ex premier Sharif aveva accusato il governo di instaurare “uno stato di polizia e di usare metodi illegali per fermare la marcia dei giudici”. I dimostranti si sarebbero radunati in queste ore davanti al palazzo giudiziario di Lahore dove la polizia è intervenuta con i gas lacrimogeni e manganelli per disperdere la folla. Ci sarebbero numerosi feriti.
In un tentativo di disinnescare la crisi, ieri Zardari aveva deciso di ammorbidire la sua posizione e di presentare un appello contro il verdetto della Corte Suprema che lo scorso mese aveva escluso i fratelli Sharif dalle cariche pubbliche e che aveva innescato le proteste.
Ma la vecchia rivalità, che covava sotto le ceneri, è ora riesplosa, con il rischio, paventato da molti, che l’esercito guidato dal generale filo occidentale Ashfaq Kayani, possa ancora una volta decidere i destini del Paese.
sabato 14 marzo 2009
ANALISI - Vinod Sharma: "crisi Zardari-Sharif rafforza esercito"
Su Apcom
L’oscuramento di un canale televisivo, le dimissioni del ministro dell’informazione, la giornalista Sherry Rehman, e la prova di forza del presidente Asif Ali Zardari che da oggi ha schierato l’esercito a Islamabad per impedire la massiccia protesta dei giudici e dell’opposizione di Nawaz Sharif. A distanza di un anno dalla cosiddetta “svolta democratica” il Pakistan sembra di nuovo precipitare nel caos e nell’instabilità politica. La vecchia rivalità tra Zardari, marito di Benazir Bhutto, a capo del Partito Popolare Pachistano (Ppp) e l’ex alleato Nawaz Sharif, ex premier ritornato dall’esilio, covava sotto la cenere e ora è riesplosa con la nuova marcia dei giudici che lunedì dovrebbero raggiungere la capitale. Sfidando il divieto del governo e gli arresti, migliaia di magistrati e avvocati starebbero confluendo da ogni provincia chiedendo a gran voce la riabilitazione dei rappresentanti della Corte Suprema e del giudice Iftikar Chaudhry esautorati da Pervez Musharraf nel novembre del 2007. Una simile mobilitazione, nell’agosto dello scorso anno, costrinse lo stesso Musharraf a dimettersi dopo nove anni di regime militare. Dopo aver rifiutato una proposta di “riconciliazione” con Sharif sollecitata da Stati Uniti e Regno Unito, Zardari sarebbe deciso a usare il pugno di ferro per reprimere le manifestazioni. La polizia ha disperso oggi un corteo di 1500 persone a Multan, nella provincia del Punjub, roccaforte del Sharif e del fratello, che hanno deciso di lanciare la “lunga marcia” dopo una sentenza della Corte Suprema che li estrometteva dalle cariche pubbliche.
In questa situazione di stallo politico, si potrebbero aprire nuovi spazi di manovra per l’esercito, che è stato il vero protagonista nella maggior parte della storia del Pakistan. Secondo alcune indiscrezioni di stampa, il capo di stato maggiore, il generale Ashfaq Parvez Kayani, un fedele del Ppp e alleato degli Usa, avrebbe dato un ultimatum a Zardari per disinnescare la crisi entro il 16 marzo, che guarda caso è anche la data prevista del sit-in dei giudici davanti al Parlamento di Islamabad.
“Non penso sia possibile un golpe come quello di Musharraf del ’99 – dice Vinod Sharma, vicedirettore del quotidiano Hindustan Times, intervistato da Apcom - La crisi con il governo democratico non si è deteriorata come quella di allora tra Musharraf, reduce dalla sfortunata avventura della guerra di Kargil, e l’allora primo ministro Nawaz Sharif. In realtà Kayani sta già gestendo la situazione e l’attuale crisi lo rende ancora più potente”. C’è anche un’altra differenza ed è quella della Casa Bianca che ha bisogno dell’alleato Pakistan per la lotta al terrorismo islamico, oggi più che mai vista l’avanzata dei talebani dopo gli accordi di pace nella valle di Swat. “Gli Stati Uniti stanno monitorando da vicino la crisi minuto dopo minuto – aggiunge – e il generale Kayani non può fare nulla senza il consenso di Washington. Corre voce che gli Stati Uniti gli abbiano già impedito di organizzare un golpe”.
La Casa Bianca ha fatto bene i suoi conti e Zardari risulta oggi l’unica “colomba” in mezzo ai “falchi”, anche se non ha onorato le sue promesse (ristabilire i giudici della Corte Suprema e limitare i poteri presidenziali) e nonostante il suo passato di corruzione che gli ha valso il soprannome di “mister 10 per cento”.
Secondo Sharma, “è anche l’unico politico della provincia del Sindh in mezzo a una marea di “punjabi”. “La sua presenza è quindi necessaria “per garantire un equilibrio” di poteri a Islamabad.
Le vendette politiche e la frammentazione dei poteri in un Paese “artificiale con confini tracciati a caso” come notava un altro commentatore, Rajinder Puri, sul settimanale Outlook, potrebbero portare a una “balcanizzazione” del Pakistan. Dopo l’attacco del 3 marzo contro la nazionale di cricket srilankese a Lahore, qualcuno in India aveva parlato di “Somalia del Sud dell’Asia”.
Lo stesso Zardari aveva ammesso in un’intervista il pericolo di una talebanizzazione, ma paradossalmente “ora sta indebolendo coloro che stanno cercando di fermare i talebani” dice ancora Sharma che è convinto che la crisi attuale non farà che rafforzare le frange estremiste presenti nell’esercito. Come afferma Puri: “Il Pakistan deve creare un sincero consenso a livello nazionale per combattere il nemico globale del terrorismo”.
L’oscuramento di un canale televisivo, le dimissioni del ministro dell’informazione, la giornalista Sherry Rehman, e la prova di forza del presidente Asif Ali Zardari che da oggi ha schierato l’esercito a Islamabad per impedire la massiccia protesta dei giudici e dell’opposizione di Nawaz Sharif. A distanza di un anno dalla cosiddetta “svolta democratica” il Pakistan sembra di nuovo precipitare nel caos e nell’instabilità politica. La vecchia rivalità tra Zardari, marito di Benazir Bhutto, a capo del Partito Popolare Pachistano (Ppp) e l’ex alleato Nawaz Sharif, ex premier ritornato dall’esilio, covava sotto la cenere e ora è riesplosa con la nuova marcia dei giudici che lunedì dovrebbero raggiungere la capitale. Sfidando il divieto del governo e gli arresti, migliaia di magistrati e avvocati starebbero confluendo da ogni provincia chiedendo a gran voce la riabilitazione dei rappresentanti della Corte Suprema e del giudice Iftikar Chaudhry esautorati da Pervez Musharraf nel novembre del 2007. Una simile mobilitazione, nell’agosto dello scorso anno, costrinse lo stesso Musharraf a dimettersi dopo nove anni di regime militare. Dopo aver rifiutato una proposta di “riconciliazione” con Sharif sollecitata da Stati Uniti e Regno Unito, Zardari sarebbe deciso a usare il pugno di ferro per reprimere le manifestazioni. La polizia ha disperso oggi un corteo di 1500 persone a Multan, nella provincia del Punjub, roccaforte del Sharif e del fratello, che hanno deciso di lanciare la “lunga marcia” dopo una sentenza della Corte Suprema che li estrometteva dalle cariche pubbliche.
In questa situazione di stallo politico, si potrebbero aprire nuovi spazi di manovra per l’esercito, che è stato il vero protagonista nella maggior parte della storia del Pakistan. Secondo alcune indiscrezioni di stampa, il capo di stato maggiore, il generale Ashfaq Parvez Kayani, un fedele del Ppp e alleato degli Usa, avrebbe dato un ultimatum a Zardari per disinnescare la crisi entro il 16 marzo, che guarda caso è anche la data prevista del sit-in dei giudici davanti al Parlamento di Islamabad.
“Non penso sia possibile un golpe come quello di Musharraf del ’99 – dice Vinod Sharma, vicedirettore del quotidiano Hindustan Times, intervistato da Apcom - La crisi con il governo democratico non si è deteriorata come quella di allora tra Musharraf, reduce dalla sfortunata avventura della guerra di Kargil, e l’allora primo ministro Nawaz Sharif. In realtà Kayani sta già gestendo la situazione e l’attuale crisi lo rende ancora più potente”. C’è anche un’altra differenza ed è quella della Casa Bianca che ha bisogno dell’alleato Pakistan per la lotta al terrorismo islamico, oggi più che mai vista l’avanzata dei talebani dopo gli accordi di pace nella valle di Swat. “Gli Stati Uniti stanno monitorando da vicino la crisi minuto dopo minuto – aggiunge – e il generale Kayani non può fare nulla senza il consenso di Washington. Corre voce che gli Stati Uniti gli abbiano già impedito di organizzare un golpe”.
La Casa Bianca ha fatto bene i suoi conti e Zardari risulta oggi l’unica “colomba” in mezzo ai “falchi”, anche se non ha onorato le sue promesse (ristabilire i giudici della Corte Suprema e limitare i poteri presidenziali) e nonostante il suo passato di corruzione che gli ha valso il soprannome di “mister 10 per cento”.
Secondo Sharma, “è anche l’unico politico della provincia del Sindh in mezzo a una marea di “punjabi”. “La sua presenza è quindi necessaria “per garantire un equilibrio” di poteri a Islamabad.
Le vendette politiche e la frammentazione dei poteri in un Paese “artificiale con confini tracciati a caso” come notava un altro commentatore, Rajinder Puri, sul settimanale Outlook, potrebbero portare a una “balcanizzazione” del Pakistan. Dopo l’attacco del 3 marzo contro la nazionale di cricket srilankese a Lahore, qualcuno in India aveva parlato di “Somalia del Sud dell’Asia”.
Lo stesso Zardari aveva ammesso in un’intervista il pericolo di una talebanizzazione, ma paradossalmente “ora sta indebolendo coloro che stanno cercando di fermare i talebani” dice ancora Sharma che è convinto che la crisi attuale non farà che rafforzare le frange estremiste presenti nell’esercito. Come afferma Puri: “Il Pakistan deve creare un sincero consenso a livello nazionale per combattere il nemico globale del terrorismo”.
venerdì 13 marzo 2009
REPORTAGE - Angelo Falcone, “Pensavo di farla finita, ma ora sto bene”
Su Apcom
NAHAN (Himachal Pradesh) - Non c’é una stanza delle visite nella prigione di Nahan, un paesone alle pendici dell’Himalaya, dove é detenuto Angelo Falcone condannato a dieci anni di carcere insieme all’amico Simone Nobili con l’accusa di detenzione e spaccio di 18 chili di hashish. Dopo aver attraversato due pesanti cancelli si entra nella portineria dove ci sono anche gli uffici amministrativi. Alle pareti azzurre scrostate dal tempo e dall’umiditá ci sono i ritratti ingialliti del Mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru. Su una lavagna c’é scritto con un gessetto che ci sono 267 detenuti. Piú in là in rosso c’é una citazione in hindi del filosofo inglese John Locke sugli uomini che sbagliano perché “tentati dall’interesse o dalla passione”.
I secondini che compilano il registro dei visitatori si mettono in mostra con qualche parolaccia in italiano imparata da chi è passato di qui.
Quando arriva Angelo ci fanno sedere su una coperta di lana stesa sul pavimento. Rispetto all’ultima visita, lo scorso luglio, quando era nella prigione di Mandi, in attesa di giudizio, sembra più in salute. “Sto bene, i forti dolori alla gambe che avevo sono andati via grazie all’aiuto di un amico, non prendo più medicine e ho ricominciato a mangiare”. E’ un sollievo perché lo scorso autunno quando aveva ricevuto l’ultima visita dei funzionari dell’ambasciata italiana di Nuova Delhi, le sue condizioni di salute erano allarmanti. “Ero disperato non sapevo più cosa fare – dice – non riuscivo quasi a camminare, ero in uno stato di depressione, non riuscivo a parlare con la mia famiglia, avevo voglia di farla finita”. I contatti con l’esterno sono proibiti nelle principali prigioni dell’Himachal Pradesh. Angelo può solo comunicare via lettera o via fax (“c’é qualcuno che ogni tanto va fuori a spedirlo”). Secondo il padre, Giovanni, ex carabiniere - che sta portando avanti con un blog una campagna a favore dei detenuti italiani all’estero - la mancanza di contatti con l’esterno é una grave violazione dei diritti umani.
L’odissea del cuoco di 27 anni di Bobbio, nel piacentino, iniziata due anni fa durante la sua prima vacanza in India, sta sollevando l’attenzione di esponenti politici, come i Radicali Italiani e anche di giornali e televisioni.
Ma tra le alte mura di cemento del carcere di Nahan, la speranza di Angelo é appesa all’appello presentata dalla difesa (ma anche dall’accusa che chiede una maggiorazione della pena). Non é ancora stata fissata una data per l’udienza. Dopo la condanna in primo grado a 10 anni di reclusione più una multa, la famiglia Falcone si é affidata a uno dei più famosi - ma anche costosi - studi legali di Nuova Delhi che di recente ha ottenuto l’assoluzione di 4 ragazzi italiani anche loro coinvolti in una storia di droga.
“Da quando sono ritornato in forza ho ricominciato a scrivere e a disegnare – dice Angelo che ha chiesto di poter stare in una cella a due letti che condivide con l’amico. “A differenza di quello che si potrebbe immaginare per un Paese come l’India, é abbastanza pulito. Ogni giorno i materassi sono disinfettati, possiamo comprare e cucinare il nostro cibo e abbiamo una biblioteca”.
Alla fine dell’incontro, durato oltre i 20 minuti consentiti, aggiunge: “Quando torno in Italia voglio sposarmi e stare con la mia famiglia a Bobbio. La prigione mi ha fatto vedere le cose sotto una luce diversa. Non potrò fare la stessa vita di prima. Ho capito che molte cose, come le auto o vestiti firmati, sono insignificanti e mentre prima le cercavo ora penso proprio di poterne fare a meno”.
domenica 8 marzo 2009
Sri Lanka, uccisi 100 ribelli delle Tigri Tamil secondo il governo
Su Radio Svizzera Italiana
Nonostante gli appelli delle nazioni Unite per un cessate il fuoco e l’allarme della Croce Rossa che ha denunciato il rischio di una crisi umanitaria, continuano i combattimenti nel distretto di Mullaitivu, dove sono arroccati i separatisti delle Tigri tamil. Secondo fonti governative, da venerdi scorso l’esercito avrebbe ucciso 100 ribelli e recuperato una grande quantità di armi e munizioni. Il portavoce militare Nanayakkara ha detto che i guerriglieri sarebbero circa 500 in un territorio di appena 45 chilometri quadrati e che impedirebbero alla popolazione civile di scappare verso le zone di sicurezza allestite dal governo. Come al solito è impossibile verificare queste informazioni a causa delle pesanti restrizioni imposte a giornalisti e operatori umanitari. Il sito internet TamilNet, che è stato oscurato nei territori tamil, riferisce invece di pesanti perdite tra i soldati cingalesi e accusa l’esercito di bombardare le aree destinate ai profughi tamil. Un medico del governo, intervistato dalla BBC, ha ammesso che negli ultimi due giorni 15 civili sono stati uccisi dagli scontri. E’ difficile i anche valutare quanti tamil sono rimasti intrappolati nelle zone di guerra. Si stima che siano dalle 70 mila alle 100 mila persone e che si troverebbero senza cibo e medicine, secondo la Croce Rossa, l’unica organizzazione ammessa alle operazioni di sfollamento dei civili feriti che, a gruppi di 400 o 500, quasi ogni giorno, arrivano via mare all’ospedale di Trincomalee.
Nonostante gli appelli delle nazioni Unite per un cessate il fuoco e l’allarme della Croce Rossa che ha denunciato il rischio di una crisi umanitaria, continuano i combattimenti nel distretto di Mullaitivu, dove sono arroccati i separatisti delle Tigri tamil. Secondo fonti governative, da venerdi scorso l’esercito avrebbe ucciso 100 ribelli e recuperato una grande quantità di armi e munizioni. Il portavoce militare Nanayakkara ha detto che i guerriglieri sarebbero circa 500 in un territorio di appena 45 chilometri quadrati e che impedirebbero alla popolazione civile di scappare verso le zone di sicurezza allestite dal governo. Come al solito è impossibile verificare queste informazioni a causa delle pesanti restrizioni imposte a giornalisti e operatori umanitari. Il sito internet TamilNet, che è stato oscurato nei territori tamil, riferisce invece di pesanti perdite tra i soldati cingalesi e accusa l’esercito di bombardare le aree destinate ai profughi tamil. Un medico del governo, intervistato dalla BBC, ha ammesso che negli ultimi due giorni 15 civili sono stati uccisi dagli scontri. E’ difficile i anche valutare quanti tamil sono rimasti intrappolati nelle zone di guerra. Si stima che siano dalle 70 mila alle 100 mila persone e che si troverebbero senza cibo e medicine, secondo la Croce Rossa, l’unica organizzazione ammessa alle operazioni di sfollamento dei civili feriti che, a gruppi di 400 o 500, quasi ogni giorno, arrivano via mare all’ospedale di Trincomalee.
giovedì 5 marzo 2009
Il re della birra riporta in patria gli occhiali del Mahatma con 1,8 milioni di dollari
In onda su Radio Svizzera Italiana
Alla fine è intervenuto Vijay Mallya, il re indiano della birra, a salvare la preziosa eredità del Mahatma Gandhi messa all’asta a New York da un collezionista americano. Il generoso intervento del magnate Mallya, che ha sborsato un milione e 800 mila per un paio di occhiali, un orologio da polso, sandali infradito e un piatto, è stato salutato in India come un trionfo nazionale. Nei giorni scorsi il governo indiano aveva ingaggiato una strenua battaglia per bloccare la vendita organizzata dalla casa d’aste Antiquorum. Aveva anche tentato di convincere prima con denaro e poi con minacce legali il giovane collezionista californiano James Otis, un appassionato di Gandhi, che aveva chiesto come condizione per ritirare gli oggetti dall’asta, che l’India aumentasse la spesa sanitaria a favore dei poveri. In realtà, lo stesso Otis, un’ora prima della vendita aveva deciso di cedere alle pressioni e ha ordinato ai suoi avvocati di bloccare l’asta, ma evidentemente era troppo tardi. Partito da un prezzo base di 20 mila dollari, il lotto degli averi personali del Mahatma è stato conteso da una folla di compratori stranieri, ma alla fine è stato aggiudicato dal rappresentante di Mallya, che potrà però entrare in possesso dei beni solo tra due settimane a causa della controversia legale nata tra il collezionista e Antiquorum. Già in passato la vendita averi personali, manoscritti e lettere del Mahatma, di cui non esiste un inventario ufficiale, è stata al centro di furiose polemiche. Di sicuro a Gandhi non sarebbe piaciuto.
Alla fine è intervenuto Vijay Mallya, il re indiano della birra, a salvare la preziosa eredità del Mahatma Gandhi messa all’asta a New York da un collezionista americano. Il generoso intervento del magnate Mallya, che ha sborsato un milione e 800 mila per un paio di occhiali, un orologio da polso, sandali infradito e un piatto, è stato salutato in India come un trionfo nazionale. Nei giorni scorsi il governo indiano aveva ingaggiato una strenua battaglia per bloccare la vendita organizzata dalla casa d’aste Antiquorum. Aveva anche tentato di convincere prima con denaro e poi con minacce legali il giovane collezionista californiano James Otis, un appassionato di Gandhi, che aveva chiesto come condizione per ritirare gli oggetti dall’asta, che l’India aumentasse la spesa sanitaria a favore dei poveri. In realtà, lo stesso Otis, un’ora prima della vendita aveva deciso di cedere alle pressioni e ha ordinato ai suoi avvocati di bloccare l’asta, ma evidentemente era troppo tardi. Partito da un prezzo base di 20 mila dollari, il lotto degli averi personali del Mahatma è stato conteso da una folla di compratori stranieri, ma alla fine è stato aggiudicato dal rappresentante di Mallya, che potrà però entrare in possesso dei beni solo tra due settimane a causa della controversia legale nata tra il collezionista e Antiquorum. Già in passato la vendita averi personali, manoscritti e lettere del Mahatma, di cui non esiste un inventario ufficiale, è stata al centro di furiose polemiche. Di sicuro a Gandhi non sarebbe piaciuto.
India contro l'asta degli occhiali del Mahatma
Su Apcom
Il governo indiano ha respinto le condizioni imposte dal collezionista americano James Otis, proprietario di alcuni averi personali del Mahatma Gandhi che andranno all’asta oggi a New York. Tra gli oggetti ci sono un paio di occhialini tondi, un orologio da tasca e dei sandali di pelle infradito.
Da alcune settimane il governo indiano è impegnato in una frenetica corsa contro il tempo per annullare la vendita pubblica che è organizzata dalla casa d’aste Antiquorum.
In un fax inviato ieri al consolato indiano di New York, il collezionista Otis aveva chiesto al governo indiano di aumentare del 5% della spesa sanitaria per i ceti poveri e il finanziamento di eventi promozionali dei valori gandhiani in 78 Paesi “uno per ogni anno che Gandhi ci ha donato con la sua esistenza”. In risposta oggi il ministro indiano dell’informazione Anand Sharma ha detto in un’intervista a un canale televisivo che “l’India non intende negoziare e che lo stesso Gandhi avrebbe avuto repulsione della vendita dei suoi averi ad un’asta”. E poi ha aggiunto: “invitiamo il signor Otis a informarsi sui programmi anti povertà attuati dal governo”.
Mentre mancano poche ore alla vendita, il governo di Nuova Delhi è fiducioso di rientrare in possesso dei preziosi oggetti. Alcuni magnati indiani, tra cui Vikram Chatwal, proprietario di una catena alberghiera e con influenti legami a Washington, avrebbero deciso di partecipare all’asta e sarebbero pronti a pagare somme elevate per aggiudicarsi gli oggetti di “Bapu”, come Gandhi è affettuosamente chiamato in patria. Anche alcuni pro nipoti del Mahatma, tra cui Tushkar Gandhi, starebbero organizzando delle “collette”. Il governo indiano starebbe tentando anche le vie legali facendo appello alla giustizia americana sulla base di una sentenza emessa ieri dall’Alta Corte di Nuova Delhi che ha ordinato la sospensione dell’asta di Antiquorum accogliendo una petizione presentata dalla fondazione Navjivan di Ahmedabad a cui fanno capo tutte le opere e scritti dell’apostolo nella non violenza assassinato nel 1948.
La casa d’aste Antiquorum ha riferito che la collezione parte da un prezzo base di 20 mila dollari, una cifra che di sicuro sarà destinata a lievitare data la presenza degli acquirenti indiani. Il collezionista Otis, che nei giorni scorsi aveva respinto un’offerta di denaro presentata da Nuova Delhi, in quanto “troppo bassa”, ha detto di essere in possesso anche di ceneri della cremazione del Mahatma e di alcuni campioni del sangue raccolti in un ospedale di Delhi.
Il governo indiano ha respinto le condizioni imposte dal collezionista americano James Otis, proprietario di alcuni averi personali del Mahatma Gandhi che andranno all’asta oggi a New York. Tra gli oggetti ci sono un paio di occhialini tondi, un orologio da tasca e dei sandali di pelle infradito.
Da alcune settimane il governo indiano è impegnato in una frenetica corsa contro il tempo per annullare la vendita pubblica che è organizzata dalla casa d’aste Antiquorum.
In un fax inviato ieri al consolato indiano di New York, il collezionista Otis aveva chiesto al governo indiano di aumentare del 5% della spesa sanitaria per i ceti poveri e il finanziamento di eventi promozionali dei valori gandhiani in 78 Paesi “uno per ogni anno che Gandhi ci ha donato con la sua esistenza”. In risposta oggi il ministro indiano dell’informazione Anand Sharma ha detto in un’intervista a un canale televisivo che “l’India non intende negoziare e che lo stesso Gandhi avrebbe avuto repulsione della vendita dei suoi averi ad un’asta”. E poi ha aggiunto: “invitiamo il signor Otis a informarsi sui programmi anti povertà attuati dal governo”.
Mentre mancano poche ore alla vendita, il governo di Nuova Delhi è fiducioso di rientrare in possesso dei preziosi oggetti. Alcuni magnati indiani, tra cui Vikram Chatwal, proprietario di una catena alberghiera e con influenti legami a Washington, avrebbero deciso di partecipare all’asta e sarebbero pronti a pagare somme elevate per aggiudicarsi gli oggetti di “Bapu”, come Gandhi è affettuosamente chiamato in patria. Anche alcuni pro nipoti del Mahatma, tra cui Tushkar Gandhi, starebbero organizzando delle “collette”. Il governo indiano starebbe tentando anche le vie legali facendo appello alla giustizia americana sulla base di una sentenza emessa ieri dall’Alta Corte di Nuova Delhi che ha ordinato la sospensione dell’asta di Antiquorum accogliendo una petizione presentata dalla fondazione Navjivan di Ahmedabad a cui fanno capo tutte le opere e scritti dell’apostolo nella non violenza assassinato nel 1948.
La casa d’aste Antiquorum ha riferito che la collezione parte da un prezzo base di 20 mila dollari, una cifra che di sicuro sarà destinata a lievitare data la presenza degli acquirenti indiani. Il collezionista Otis, che nei giorni scorsi aveva respinto un’offerta di denaro presentata da Nuova Delhi, in quanto “troppo bassa”, ha detto di essere in possesso anche di ceneri della cremazione del Mahatma e di alcuni campioni del sangue raccolti in un ospedale di Delhi.
mercoledì 4 marzo 2009
Lahore, arrestati alcuni sospetti per attacco a giocatori di cricket srilankesi
In onda su Radio Svizzera Italiana
Rimane ancora incerta la matrice dell’attentato ai giocatori di cricket srilankesi in trasferta a Lahore per la terza giornata di un torneo. La polizia pachistana ha riferito di aver arrestato alcuni sospetti, ma non ha precisato quali sarebbero i legami con la dozzina di assalitori che con kalashnikov e bombe a mano hanno attaccato ieri mattina il bus con a bordo la nazionale dello Sri Lanka riuscendo poi far perdere le proprie tracce. Gli investigatori hanno ritrovato un grosso quantitativo di armi munizioni, nonché e zaini con scorte di cibo e acqua, segno che gli attentatori si preparavano ad un lungo assedio. Secondo un quotidiano avrebbero avuto intenzione gli atleti che oggi sono già tornati a Colombo.
L’attacco, costato la vita a otto persone, tra cui sei poliziotti, ha messo in imbarazzo il governo di Asif Ali Zardari, già sotto pressione dopo l’ammissione che gli attentati di Mumbai erano stati pianificati e organizzati in Pakistan. Gli investigatori pachistani ritengono che il commando di Lahore possa provenire dallo stesso gruppo di militanti e ha chiesto all’India di collaborare nell’inchiesta. Non è escluso che alle indagini partecipi anche l’FBI, il cui direttore è giunto stamattina a Islamabad per una missione già prevista nell’ambito dell’inchiesta congiunta sui fatti di Mumbai.
Rimane ancora incerta la matrice dell’attentato ai giocatori di cricket srilankesi in trasferta a Lahore per la terza giornata di un torneo. La polizia pachistana ha riferito di aver arrestato alcuni sospetti, ma non ha precisato quali sarebbero i legami con la dozzina di assalitori che con kalashnikov e bombe a mano hanno attaccato ieri mattina il bus con a bordo la nazionale dello Sri Lanka riuscendo poi far perdere le proprie tracce. Gli investigatori hanno ritrovato un grosso quantitativo di armi munizioni, nonché e zaini con scorte di cibo e acqua, segno che gli attentatori si preparavano ad un lungo assedio. Secondo un quotidiano avrebbero avuto intenzione gli atleti che oggi sono già tornati a Colombo.
L’attacco, costato la vita a otto persone, tra cui sei poliziotti, ha messo in imbarazzo il governo di Asif Ali Zardari, già sotto pressione dopo l’ammissione che gli attentati di Mumbai erano stati pianificati e organizzati in Pakistan. Gli investigatori pachistani ritengono che il commando di Lahore possa provenire dallo stesso gruppo di militanti e ha chiesto all’India di collaborare nell’inchiesta. Non è escluso che alle indagini partecipi anche l’FBI, il cui direttore è giunto stamattina a Islamabad per una missione già prevista nell’ambito dell’inchiesta congiunta sui fatti di Mumbai.
martedì 3 marzo 2009
Pakistan, scampata ad attacco la nazionale di cricket srilankese
Potrebbe essere lo stesso gruppo estremista responsabile delle stragi di Mumbai del 26 novembre, ad aver attaccato il bus dei giocatori della nazionale di cricket srilankese in trasferta a Lahore per un torneo. Lo farebbe pensare il tipo di attacco condotto con una tattica militare e con una notevole quantità di armi e bombe a mano. La polizia pachistana ha ritrovato anche due autobombe in un parcheggio, detonatori e borse di esplosivo. Si ipotizza che il commando, ripreso da un canale televisivo durante l’azione, fosse composto da una decina di uomini armati di kalashnikov che sono riusciti a fuggire alla cattura dopo una battaglia di 20 minuti con le forze dell’ordine costata la vita a sei poliziotti e ad un passante. Nell’assalto sono rimasti feriti sei giocatori srilankesi e il loro l’allenatore di nazionalità australiana. Sembra che gli attentatori siano giunti in autorisciò eludendo la sicurezza intorno allo stadio Gheddafi. L’attacco è stato uno choc per il mondo del cricket, lo sport più popolare nel sud dell’Asia. La squadra srilankese era stata invitata al posto dell’India che aveva cancellato la sua partecipazione al torneo dopo i fatti di Mumbai. Per ora la pista islamica resta la più probabile, data la presenza a Lahore di sigle estremiste come Lashkar e Taiba, ma potrebbero esserci anche delle connessioni con la durissima campagna militare del governo di Colombo contro i ribelli delle Tigri Tamil, un’ipotesi pero esclusa dal governo pachistano che appare sempre più vulnerabile agli attacchi della jihad anche dopo il controverso accordo di pace con i talebani della vallata di Swat.
lunedì 2 marzo 2009
REPORTAGE - Sri Lanka, il dramma dei profughi e la censura del governo
Su Apcom
Sul muro di cinta dell’ospedale di Trincomalee, blindato dall’esercito, ci sono delle fotocopie con centinaia di nomi. Sono gli sfollati tamil scappati dalla guerra che infuria nel distretto di Vanni e trasferiti nei campi di accoglienza del governo dopo aver ricevuto le prime cure sanitarie. C’è il loro nome, età, luogo di origine e destinazione. Poi due caselle barrate a seconda che il caso sia “grave” o “meno grave”.
In questo ospedale ci sono circa 900 feriti trasportati qui via mare dal distretto di Mullaittivu, dove si sta concentrando la fase finale della campagna militare contro i ribelli delle Tigri Tamil ormai accerchiati in un fazzoletto di giungla di appena 70 chilometri. Da alcune settimane quasi ogni giorno nella base navale di Trincomalee, principale porto della costa nord orientale, arriva una barca di 300 o 400 profughi, la maggior parte feriti dai bombardamenti, ma anche bambini orfani e anziani malati. “Molti di loro arrivano orrendamente mutilati o con il corpo straziato dalle schegge dei bombardamenti e dalle ustioni. Le loro ferite sono infette. Magari hanno dovuto attendere qualche giorno prima di imbarcarsi per un viaggio che dura circa dieci ore” spiega Muhaijeer, che lavora all’UNDP di Trincomalee e che di solito assiste agli sbarchi notturni degli sfollati. Le Nazioni Unite, insieme alla Croce Rossa Internazionale, sono incaricate di “monitorare” le operazioni umanitarie del governo a favore della popolazione intrappolata nei combattimenti. “Non possiamo parlare direttamente con loro e neppure avvicinarci. Una volta sbarcati, i profughi sono portati all’ospedale dove ricevono le prime cure e poi sono dismessi dopo un giorno per far posto ad altri”. Secondo il responsabile dell’Onu, il trattamento ricevuto nell’ospedale dove lavorano anche 100 volontari della Croce Rossa in tre turni è “adeguato”, ma “non si sa nulla sulle condizioni dei campi profughi dove vengono trasferiti”.
Uno dei principali nodi di questo conflitto, riesploso un anno fa dopo il fallimento del processo di pace sponsorizzato dai norvegesi, è proprio l’accesso a informazioni indipendenti. Dopo la cattura della roccaforte di Kilinochchi e dello strategico Elephant Pass che collega la penisola di Jaffna con il resto del Paese, il governo di Colombo ha aumentato la pressione sugli organi di informazione. L’accesso ai website tamil, come tamilnet.com, è stato bloccato a Trincomalee dove sono state “oscurate” anche le reti straniere, come Bbc e Cnn, che si sono viste rifiutare anche i visti di ingresso nel Paese.
L’ospedale di Trincomalee e le tre scuole trasformate in centri di accoglienza sono presidiate dai militari. “Sono come delle prigioni” ci dice T.Bramenthiran, manager dei progetti di Agrisud International, un’organizzazione non governativa francese che si occupa di riabilitare gli agricoltori vittime dello tsunami del 2005 e di due decenni di conflitto. A Trincomalee c’è una concentrazione enorme di ong, ma da quanto è riesploso il conflitto con l’LTTE sono rimaste in poche. “Ogni volta arriva la barca da Mullaittivu – racconta – corro a vedere chi arriva. Non ho più notizie di mio cognato da un mese. So che era scappato per sfuggire all’avanzata dell’esercito e come molti altri era andato a est”. Davanti al computer in ufficio passa le giornate a cercare notizie sui siti internet tamil che riescono a superare la censura del governo. “Ci sono delle notizie allarmanti – spiega – si dice che nei campi profughi di Vavuniya, ci sono stati casi di stupro e che le donne tamil sono costrette ad abortire”. Ma è praticamente impossibile verificarne la veridicità. A Vavuniya, dove sono radunati i civili fatti uscire dalle cosiddette “free war zone” create dal governo intorno alla zona di conflitto, non ci si arriva senza permessi. Si era recato però il sottosegretario dell’Onu agli affari umanitari, John Holmes, nella sua missione di tre giorni (coincisa tra l’altro con il raid aereo delle Tigri Tamil su Colombo). Nel suo rapporto al Consiglio di Sicurezza, l’inviato di Ban Ki-moon si è lamentato per i divieti e le restrizioni imposti ai media e alle agenzie umanitarie.
La preoccupazione del governo è che tra gli sfollati si nascondano anche i guerriglieri delle Tigri Tamil in fuga. Secondo alcune indiscrezioni, nella giungla di Mullaittivu ci sarebbero circa mille ribelli superstiti tra cui il fondatore del movimento di Liberazione delle Tigri di Tamil Eelam (LTTE) Velupillai Prabhakaran e il figlio Charles Antony, le “prede” più ambite dell’esercito cingalese. La nazionale A6 che porta a Trincomalee è puntellata di posti di blocco e pattuglie che presidiano anche i canali d’acqua delle risaie.
Tra la gente di Trincomalee e delle vicine spiagge, che sono le più belle dello Sri Lanka, ci sono pochi disposti a parlare di cosa sta avvenendo a cento chilometri a nord. “Anche i muri hanno le orecchie” scherza Luca, che ha un ristorante italiano sulla strada per la spiaggia di Nilaveli, frequentato soprattutto dai funzionari delle agenzie umanitarie. La sua cuoca tamil è un’orfana di guerra. I genitori sono stati uccisi in un’incursione dei militari contro i separatisti. Al di là della strada, in riva al mare, c’è l’ufficio dell’Aispo (Associazione Italiana per la Solidarietà tra i Popoli), la ong dell’ospedale San Raffaele di Milano, che insieme alla Protezione Civile ha costruito degli ospedali per la popolazione tamil. “Siamo sul filo del rasoio” è tutto quello che dice il responsabile Alberto Livoni, raggiunto per telefono mentre si trovava all’ospedale a curare i profughi. “Anche per noi diventa sempre più difficile lavorare in questo clima”.
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