In onda su Radio Svizzera Italiana
Sembra ci sia stata la forte pressione di Washington dietro il cambio della guardia al vertice dell’Isi, l’Inter Intelligence Service, il potente servizio segreto che spesso ha avuto un ruolo determinante nei destini del Pakistan. Il neo presidente Asif Ali Zardari avrebbe incontrato nel finesettimana a New York il capo della Cia che da qualche tempo insiste per una riforma dei servizi segreti accusati di sostenere indirettamente i talebani. Il generale Nadeem Taj, un fedele dell’ex presidente Musharraf è stato sostituito dal generale Ahmed Shuja Pasha, considerato un “falco” nella lotta ai militanti islamici. Il suo ultimi incarico è stato di guidare le offensive militari contro le roccaforti degli integralisti in Waziristan. In precedenza aveva comandato i caschi blu dell’Onu in Sierra Leone. La sua nomina sarebbe stata decisa dal capo delle forze armate, il generale Kayani, lui stesso al vertice dello spionaggio fino ad un anno fa. Si rafforzerebbe così il controllo dell’esercito sull’Isi dopo il tentativo del governo, fallito a luglio, di riformare i servizi segreti ponendoli sotto il potere civile. Gli Stati Uniti sospettano che alcuni servizi deviati continuino a sostenere i talebani in Afghanistan e che siano indirettamente coinvolti in attentati terroristici, come quello del 7 luglio contro l’ambasciata indiana a Kabul.
martedì 30 settembre 2008
Ressa al tempio Chamundi, una tragedia evitabile
Su Apcom
L’India è tra i Paesi più religiosi al mondo ma i suoi templi sono tra i più pericolosi. Ogni volta un pellegrinaggio si trasforma in una strage, come quello di oggi al tempio Chamundi a Jodhpur, ci si chiede puntualmente come si poteva evitare la tragedia. Ma appena cremati i corpi delle vittime tutto ritorna come prima. Anche se le inchieste della polizia accertano le cause dell’incidente, difficilmente ci sono delle conseguenze civili o penali per i responsabili della mancanza di norme di sicurezza. Il giorno dopo i fedeli continuano ad affluire in massa e ad aspettare pazientemente il proprio turno in lunghissime code per portare le offerte alla divinità e ricevere la loro benedizione.
Nonostante il boom economico, l’India rimane un Paese profondamente attaccato ai valori e alle tradizioni dell’induismo. I pellegrinaggi, gli “yatra” o anche i bagni rituali dei “kumba mela”, costituiscono un’esperienza culminante nella vita di un fedele e implicano lunghi ed estenuanti viaggi. L’occasione è di solito una delle tante festività del calendario induista o una data considerata particolarmente fortunata dal punto di vista astrologico e che è di buon auspicio per matrimoni, nascite o affari.
In particolare oggi si celebra il primo dei nove giorni del festival di Navratri in onore della dea Durga. Il piccolo tempio Chamundi, che sorge ad una estremità del maestoso forte Meherangarh di Jodhpur, meta turistica del Rajasthan, è dedicato a questa divinità molto popolare e raffigurata come una guerriera che cavalca una tigre. Il complesso storico che domina la città da un’altura di un centinaio di metri appartiene all’ex maharaja di Jodhpur. Sembra che quando è scoppiata la ressa erano radunati sul posto circa 10 mila fedeli per effettuare la “puja”, l’offerta, alle prime luci dell’alba. I pellegrini si trovavano in una lunga coda in uno stretto passaggio quando si è scatenato il panico sembra causato da un’interruzione di corrente. Ma non è escluso che il fuggi fuggi generale sia stato innescato dalla falsa notizia di una bomba. Per uccidere 146 persone lo scorso 4 agosto al tempio di Naina Devi (anche questo dedicato alla dea Durga), alle pendici dell’Himalaya, è bastata la voce di una frana causata dalle piogge monsoniche che imperversavano nella zona.
Il sovraffollamento, gli spazi ristretti, la tensione e la stanchezza della gente costretta a faticosissime attese e anche il fervore religioso, sono tutti ingredienti che possono trasformare un piccolo incidente in una tragedia dove a patire sono i più deboli, di solito donne e bambini, che vengono calpestati dalla folla impazzita.
Dopo la ressa mortale al tempio di Naina Devi, il quotidiano “Times of India” aveva puntato il dito contro gli organizzatori del pellegrinaggio che avrebbero dovuto prendere esempio da altri luoghi sacri, per esempio il famoso tempio di Tirupati, nel sud del Paese, che è quello che attira più fedeli in assoluto. “E’ un modello ideale di come gestire folle di fedeli ed evitare le resse” – scrive il quotidiano. Il tempio di Tirupati è frequentato da 16 mila fedeli al giorno che possono accedere solo a gruppi limitati attraverso un lungo percorso a serpentina controllato da decine di volontari e poliziotti. Un altro esempio “positivo”, citato dal quotidiano, è il noto Tempio d’Oro di Amritsar, al confine con il Pakistan, il “Vaticano” dei sikh, che ogni giorno è visitato da 100 mila fedeli.
L’India è tra i Paesi più religiosi al mondo ma i suoi templi sono tra i più pericolosi. Ogni volta un pellegrinaggio si trasforma in una strage, come quello di oggi al tempio Chamundi a Jodhpur, ci si chiede puntualmente come si poteva evitare la tragedia. Ma appena cremati i corpi delle vittime tutto ritorna come prima. Anche se le inchieste della polizia accertano le cause dell’incidente, difficilmente ci sono delle conseguenze civili o penali per i responsabili della mancanza di norme di sicurezza. Il giorno dopo i fedeli continuano ad affluire in massa e ad aspettare pazientemente il proprio turno in lunghissime code per portare le offerte alla divinità e ricevere la loro benedizione.
Nonostante il boom economico, l’India rimane un Paese profondamente attaccato ai valori e alle tradizioni dell’induismo. I pellegrinaggi, gli “yatra” o anche i bagni rituali dei “kumba mela”, costituiscono un’esperienza culminante nella vita di un fedele e implicano lunghi ed estenuanti viaggi. L’occasione è di solito una delle tante festività del calendario induista o una data considerata particolarmente fortunata dal punto di vista astrologico e che è di buon auspicio per matrimoni, nascite o affari.
In particolare oggi si celebra il primo dei nove giorni del festival di Navratri in onore della dea Durga. Il piccolo tempio Chamundi, che sorge ad una estremità del maestoso forte Meherangarh di Jodhpur, meta turistica del Rajasthan, è dedicato a questa divinità molto popolare e raffigurata come una guerriera che cavalca una tigre. Il complesso storico che domina la città da un’altura di un centinaio di metri appartiene all’ex maharaja di Jodhpur. Sembra che quando è scoppiata la ressa erano radunati sul posto circa 10 mila fedeli per effettuare la “puja”, l’offerta, alle prime luci dell’alba. I pellegrini si trovavano in una lunga coda in uno stretto passaggio quando si è scatenato il panico sembra causato da un’interruzione di corrente. Ma non è escluso che il fuggi fuggi generale sia stato innescato dalla falsa notizia di una bomba. Per uccidere 146 persone lo scorso 4 agosto al tempio di Naina Devi (anche questo dedicato alla dea Durga), alle pendici dell’Himalaya, è bastata la voce di una frana causata dalle piogge monsoniche che imperversavano nella zona.
Il sovraffollamento, gli spazi ristretti, la tensione e la stanchezza della gente costretta a faticosissime attese e anche il fervore religioso, sono tutti ingredienti che possono trasformare un piccolo incidente in una tragedia dove a patire sono i più deboli, di solito donne e bambini, che vengono calpestati dalla folla impazzita.
Dopo la ressa mortale al tempio di Naina Devi, il quotidiano “Times of India” aveva puntato il dito contro gli organizzatori del pellegrinaggio che avrebbero dovuto prendere esempio da altri luoghi sacri, per esempio il famoso tempio di Tirupati, nel sud del Paese, che è quello che attira più fedeli in assoluto. “E’ un modello ideale di come gestire folle di fedeli ed evitare le resse” – scrive il quotidiano. Il tempio di Tirupati è frequentato da 16 mila fedeli al giorno che possono accedere solo a gruppi limitati attraverso un lungo percorso a serpentina controllato da decine di volontari e poliziotti. Un altro esempio “positivo”, citato dal quotidiano, è il noto Tempio d’Oro di Amritsar, al confine con il Pakistan, il “Vaticano” dei sikh, che ogni giorno è visitato da 100 mila fedeli.
Crisi di Wall Street, le ripercussioni in India
In onda su Radio Svizzera Italiana
Il terremoto di Wall Street sta scuotendo le borse del mondo, ma in India c’è qualcuno che potrebbe fregarsi le mani. Il settore trainante dell’economia indiana, quello dell’Information Tecnology, dipende per oltre il 50 per cento dalla vendita di servizi finanziari e assicurativo a società straniere. Secondo l’associazione di categoria, Nasscom, la crisi potrebbe aumentare nel medio-lungo termine la delocalizzazione di nuovi servizi finanziari. Per tagliare i costi, le imprese occidentali sarebbero costrette a cercare mano d’opera qualificata e di lingua inglese a basso costo nei paesi emergenti come l’India. E’ un trend che si è già verificato negli ultimi anni e che ha beneficiato i colossi indiani come Wipro, Infosys e Tata. Secondo alcuni operatori del settore ci potrebbe essere anche un aumento dell’outsourcing di servizi legali per le aziende in bancarotta. I costi di un avvocato indiano sono dieci volte più bassi di uno americano.
L’ottimismo contrasta però con altre previsioni secondo le quali il settore informatico potrebbe subire una perdita di 20-25 mila posti di lavoro nell’immediato futuro. Alcune aziende hanno già bloccato le nuove assunzioni. Preoccupa anche la salute delle banche esposte sui mercati americani o britannici. Il principale istituto, ICICI, ha rassicurato i suoi clienti di avere abbastanza liquidità. E’ intervenuto anche il ministro delle finanze Chidambaram. “Stiamo soffrendo le conseguenze di turbolenze finanziarie mondiali - ha detto oggi - ma l’India rimane un mercato attraente per gli investitori”. E la borsa di Mumbai, che nel pomeriggio è ritornata in territorio positivo, gli ha dato ragione.
Il terremoto di Wall Street sta scuotendo le borse del mondo, ma in India c’è qualcuno che potrebbe fregarsi le mani. Il settore trainante dell’economia indiana, quello dell’Information Tecnology, dipende per oltre il 50 per cento dalla vendita di servizi finanziari e assicurativo a società straniere. Secondo l’associazione di categoria, Nasscom, la crisi potrebbe aumentare nel medio-lungo termine la delocalizzazione di nuovi servizi finanziari. Per tagliare i costi, le imprese occidentali sarebbero costrette a cercare mano d’opera qualificata e di lingua inglese a basso costo nei paesi emergenti come l’India. E’ un trend che si è già verificato negli ultimi anni e che ha beneficiato i colossi indiani come Wipro, Infosys e Tata. Secondo alcuni operatori del settore ci potrebbe essere anche un aumento dell’outsourcing di servizi legali per le aziende in bancarotta. I costi di un avvocato indiano sono dieci volte più bassi di uno americano.
L’ottimismo contrasta però con altre previsioni secondo le quali il settore informatico potrebbe subire una perdita di 20-25 mila posti di lavoro nell’immediato futuro. Alcune aziende hanno già bloccato le nuove assunzioni. Preoccupa anche la salute delle banche esposte sui mercati americani o britannici. Il principale istituto, ICICI, ha rassicurato i suoi clienti di avere abbastanza liquidità. E’ intervenuto anche il ministro delle finanze Chidambaram. “Stiamo soffrendo le conseguenze di turbolenze finanziarie mondiali - ha detto oggi - ma l’India rimane un mercato attraente per gli investitori”. E la borsa di Mumbai, che nel pomeriggio è ritornata in territorio positivo, gli ha dato ragione.
lunedì 29 settembre 2008
Ressa mortale al tempio di Chamunda a Jodhpur
In onda su Radio Svizzera Italiana
Sarebbe stato il crollo di un muro a scatenare il panico tra i pellegrini in coda per visitare il tempio di Chamunda, nel forte di Jodhpur, popolare meta turistica del Rajasthan. Al momento dell’incidente nel luogo sacro c’erano circa 10 mila fedeli giunti per celebrare l’inizio di una delle tante festività religiose induiste. I soccorritori hanno estratto decine di corpi intrappolati sotto le macerie. Ma altre decine di persone sarebbero state uccise dalla gigantesca ressa che si è scatenata nello stretto passaggio transennato che porta all’ingresso del tempio. A provocare il fuggi fuggi e il crollo del muro potrebbe essere stata anche la falsa notizia di una bomba. Dopo gli attentati a catena ai mercati di New Delhi del 13 settembre e l’ultimo ordigno esplosivo fatto scoppiare sabato scorso nella borgata di Mehrauli, nell’intero Paese prevale un’atmosfera di tensione e paura. Ma non è la prima volta che la ressa in un tempio si trasforma in una strage. Incidenti del genere sono molto comuni in India a causa del sovraffollamento e della totale mancanza di norme di sicurezza dei luoghi religiosi dove l’affluenza è limitata e costringe i fedeli a lunghissime attese, talvolta anche di giorni, prima di poter effettuare le offerte di rito alle divinità. L’ultima tragedia risale agli inizi di agosto quando 150 persone, tra cui molti bambini, sono state uccise dalla calca al tempio di Naina Devi, nello stato himalayano dell’Himachal Pradesh. Una ringhiera di protezione aveva ceduto sotto il peso della folla.
Sarebbe stato il crollo di un muro a scatenare il panico tra i pellegrini in coda per visitare il tempio di Chamunda, nel forte di Jodhpur, popolare meta turistica del Rajasthan. Al momento dell’incidente nel luogo sacro c’erano circa 10 mila fedeli giunti per celebrare l’inizio di una delle tante festività religiose induiste. I soccorritori hanno estratto decine di corpi intrappolati sotto le macerie. Ma altre decine di persone sarebbero state uccise dalla gigantesca ressa che si è scatenata nello stretto passaggio transennato che porta all’ingresso del tempio. A provocare il fuggi fuggi e il crollo del muro potrebbe essere stata anche la falsa notizia di una bomba. Dopo gli attentati a catena ai mercati di New Delhi del 13 settembre e l’ultimo ordigno esplosivo fatto scoppiare sabato scorso nella borgata di Mehrauli, nell’intero Paese prevale un’atmosfera di tensione e paura. Ma non è la prima volta che la ressa in un tempio si trasforma in una strage. Incidenti del genere sono molto comuni in India a causa del sovraffollamento e della totale mancanza di norme di sicurezza dei luoghi religiosi dove l’affluenza è limitata e costringe i fedeli a lunghissime attese, talvolta anche di giorni, prima di poter effettuare le offerte di rito alle divinità. L’ultima tragedia risale agli inizi di agosto quando 150 persone, tra cui molti bambini, sono state uccise dalla calca al tempio di Naina Devi, nello stato himalayano dell’Himachal Pradesh. Una ringhiera di protezione aveva ceduto sotto il peso della folla.
Graziano Trasmissioni riapre. Un testimone racconta l'attacco alla fabbrica
Su Apcom
Lo stabilimento della Graziano Trasmissioni a Greater Noida (polo industriale di nuova Delhi) riapre oggi i cancelli ad una settimana dall’uccisione del direttore L.K. Chaudry assalito da un gruppo di ex operai e al ferimento di circa venti persone. In un comunicato l’azienda torinese di cambi e ingranaggi per motori, che appartiene al gruppo elvetico Oerlikon, ha precisato che un centinaio di addetti hanno ripreso il lavoro e che presto “sarà raggiunta la piena capacità”. Ma per uno di loro, Armando Capello, capofficina di 56 anni, l’unico dipendente italiano, sarà difficile dimenticare quanto successo quel lunedì pomeriggio. “Mi trovavo in uno spiazzo fuori dallo stabilimento quando ho sentito delle urla provenire dall’officina – racconta Capello che è arrivato in India 9 anni fa con la stessa Graziano - .Quando sono entrato ho visto due persone a terra in una pozza di sangue e poi un gruppo di persone armate di spranghe e bastoni che scendevano dal primo piano dove ci sono gli uffici e la guest house. Cercavano probabilmente i dirigenti. Mi hanno visto, ma sono passati oltre senza toccarmi. Forse io non ero nella loro lista”. Sembra che il direttore Chaudhry, in un disperato tentativo di fuga, si fosse rifugiato in uno dei mini appartamenti al primo piano dove sarebbe stato picchiato a morte. “Ma non ho visto come è successo, ero terrorizzato e pensavo solo a trovare un posto dove nascondermi. Ho scavalcato una finestra e sono uscito sui tetti. Sono rimasto accovacciato lì sopra per tre ore fino a quando ho capito che non c’era più nessuno degli operai dentro l’edificio. Solo allora sono sceso, ma ancora adesso mi tremano le gambe”. Gli altri tre operai italiani, che erano solo di passaggio, si erano rifugiati invece nelle stanze dove abitavano, ma anche loro per fortuna sono stati risparmiati. “Mi è sembrata un’azione di guerra – spiega ancora Capello – che ha preso tutti di sorpresa comprese le guardie all’ingresso. Chaudhry, che conoscevo da molti anni, mi aveva confidato alcuni giorni fa di aver ricevuto delle minacce”.
Era da circa un anno che alla Graziano Trasmissioni era in corso una vertenza sindacale nata dopo il licenziamento di alcuni operai. Dopo alcuni atti di sabotaggio alle macchine, lo scorso giugno l’azienda aveva deciso di sospendere 200 operai su 600 che da allora avevano iniziato regolari picchettaggi davanti alla fabbrica. Secondo il comunicato dell’azienda “la morte di Chaudhry è il risultato di un’aggressione pianificata e calcolata, tesa a danneggiare le relazioni tra la società e i suoi dipendenti e a impedire le attività di Greater Noida”.
Il ministro del lavoro indiano Oscar Fernandes aveva commentato il tragico incidente dicendo che rappresentava un “ammonimento” per gli industriali che non rispettavano i diritti dei lavoratori, soprattutto di quelli precari. Su pressione dei suoi colleghi di governo, il giorno dopo Fernandes aveva però espresso un pubblico mea culpa e ritirato le sue dichiarazioni.
Lo stabilimento della Graziano Trasmissioni a Greater Noida (polo industriale di nuova Delhi) riapre oggi i cancelli ad una settimana dall’uccisione del direttore L.K. Chaudry assalito da un gruppo di ex operai e al ferimento di circa venti persone. In un comunicato l’azienda torinese di cambi e ingranaggi per motori, che appartiene al gruppo elvetico Oerlikon, ha precisato che un centinaio di addetti hanno ripreso il lavoro e che presto “sarà raggiunta la piena capacità”. Ma per uno di loro, Armando Capello, capofficina di 56 anni, l’unico dipendente italiano, sarà difficile dimenticare quanto successo quel lunedì pomeriggio. “Mi trovavo in uno spiazzo fuori dallo stabilimento quando ho sentito delle urla provenire dall’officina – racconta Capello che è arrivato in India 9 anni fa con la stessa Graziano - .Quando sono entrato ho visto due persone a terra in una pozza di sangue e poi un gruppo di persone armate di spranghe e bastoni che scendevano dal primo piano dove ci sono gli uffici e la guest house. Cercavano probabilmente i dirigenti. Mi hanno visto, ma sono passati oltre senza toccarmi. Forse io non ero nella loro lista”. Sembra che il direttore Chaudhry, in un disperato tentativo di fuga, si fosse rifugiato in uno dei mini appartamenti al primo piano dove sarebbe stato picchiato a morte. “Ma non ho visto come è successo, ero terrorizzato e pensavo solo a trovare un posto dove nascondermi. Ho scavalcato una finestra e sono uscito sui tetti. Sono rimasto accovacciato lì sopra per tre ore fino a quando ho capito che non c’era più nessuno degli operai dentro l’edificio. Solo allora sono sceso, ma ancora adesso mi tremano le gambe”. Gli altri tre operai italiani, che erano solo di passaggio, si erano rifugiati invece nelle stanze dove abitavano, ma anche loro per fortuna sono stati risparmiati. “Mi è sembrata un’azione di guerra – spiega ancora Capello – che ha preso tutti di sorpresa comprese le guardie all’ingresso. Chaudhry, che conoscevo da molti anni, mi aveva confidato alcuni giorni fa di aver ricevuto delle minacce”.
Era da circa un anno che alla Graziano Trasmissioni era in corso una vertenza sindacale nata dopo il licenziamento di alcuni operai. Dopo alcuni atti di sabotaggio alle macchine, lo scorso giugno l’azienda aveva deciso di sospendere 200 operai su 600 che da allora avevano iniziato regolari picchettaggi davanti alla fabbrica. Secondo il comunicato dell’azienda “la morte di Chaudhry è il risultato di un’aggressione pianificata e calcolata, tesa a danneggiare le relazioni tra la società e i suoi dipendenti e a impedire le attività di Greater Noida”.
Il ministro del lavoro indiano Oscar Fernandes aveva commentato il tragico incidente dicendo che rappresentava un “ammonimento” per gli industriali che non rispettavano i diritti dei lavoratori, soprattutto di quelli precari. Su pressione dei suoi colleghi di governo, il giorno dopo Fernandes aveva però espresso un pubblico mea culpa e ritirato le sue dichiarazioni.
sabato 27 settembre 2008
Nuova faida dei fratelli Ambani
Su Il Giornale
Si dice che l’unica persona che ascoltano è l’anziana madre Kokilaben, la matriarca dell’impero Reliance fondato negli anni Quaranta da un ex benzinaio e che oggi rappresenta il 5 per cento della ricchezza nazionale indiana con interessi nei settori chiave del petrolchimico, delle telecomunicazioni e dei supermercati. La faida dei fratelli Ambani, protagonisti in una Dinasty al curry, si arricchisce di un nuovo succulento capitolo. Anil, 49 anni, il sesto uomo più ricco del mondo, sta di nuovo per ingaggiare una battaglia legale con l’odiato fratello maggiore, Mukesh, 51 anni, che nella classifica dei super miliardari di Forbes è al quinto posto. I recenti crolli borsistici hanno eroso parte delle loro fortune, ma i due fratelli rivali rimangono sempre tra i Paperoni dell’India.
L’ennesima disputa giudiziaria riguarda un’intervista pubblicata dal New York Times lo scorso 15 giugno in cui Mukesh rivela che prima che si spartissero i beni il fratello Ambani era a capo di “una rete di spie e di informatori privati” usati per scoprire i lati deboli della concorrenza. La denuncia per diffamazione, presentata a un tribunale di Mumbai dove ha sede Reliance, coinvolge circa dieci persone e chiede la fantasmagorica cifra di 2 miliardi e mezzo di dollari come risarcimento.
Un’assurdità come tutte quelle che hanno caratterizzato questa faida familiare che si è scatenata dopo la morte del padre Dhirubbai, il venditore di “pakora” (ciambelle salate) del Gujarat, lo stato che ha dato i natali al Mahatma Gandhi e che lui ha lasciato a 16 anni per andare a fare fortuna nel porto di Aden, in Yemen, dove ha iniziato con una pompa di benzina. Ritornato in patria, grazie a un leggendario tocco da re Mida, che ha trasmesso anche ai due figli, ha poi costruito una fortuna esportando spezie e importando poliestere con margini di profitto mai inferiori al 300 per cento.
Mukesh, ingegnere chimico, è oggi a capo di Reliance Industries, conglomerato dell’energia e raffinerie. Mentre Anil, un maratoneta che ogni mattina fa jogging sul lungo mare di Mumbai, si è spartito il resto, le telecomunicazioni e il settore finanziario assicurativo. E ora sta aprendo anche supermercati a raffica. La divisione dei beni era stata fatta nel 2005 dalla madre Kokilaben, il cui intervento era stato provvidenziale per evitare il dissanguamento dell’impero in borsa. Ogni volta i due fratelli incrociano le spade, gli investitori incrociano le dita. Anche questa volta, c’è chi invoca di nuovo la mediazione materna per evitare l’odissea di una prolungata e costosa battaglia legale che è solo l’ultima di una lunga serie. Mukesh e Anil sono in causa per la vendita del gas scoperto nei giacimenti off shore del Golfo del Bengala, che nelle sue profondità nasconderebbe immense ricchezze. Il numero uno di Reliance Industries di recente ha annunciato che i nuovi pozzi metaniferi potrebbero ridurre in maniera considerevole la dipendenza energetica dell’India che oggi importa il 70 per cento del suo fabbisogno. Ma c’è un patto che vincola la vendita di gas alle industrie del fratello Anil.
Negli anni recenti intorno agli Ambani è nato un ricco florilegio di pettegolezzi. Si dice per esempio che i due non prendano mai lo stesso ascensore quando rincasano nel palazzo di 22 piani a Mumbai dove abitano con la madre. Mukesh sta costruendo un grattacielo da un miliardo di dollari, l’Antilia Tower, che avrà il record di essere il più costoso al mondo e che sarà anche il simbolo architettonico della nuova potenza economica indiana. Avrà 60 piani, un garage per cento auto, un eliporto, un centro benessere e appartamenti per 600 persone di servizio. Ma di sicuro per il fratello Ambani non ci sarà nemmeno uno sgabuzzino.
Si dice che l’unica persona che ascoltano è l’anziana madre Kokilaben, la matriarca dell’impero Reliance fondato negli anni Quaranta da un ex benzinaio e che oggi rappresenta il 5 per cento della ricchezza nazionale indiana con interessi nei settori chiave del petrolchimico, delle telecomunicazioni e dei supermercati. La faida dei fratelli Ambani, protagonisti in una Dinasty al curry, si arricchisce di un nuovo succulento capitolo. Anil, 49 anni, il sesto uomo più ricco del mondo, sta di nuovo per ingaggiare una battaglia legale con l’odiato fratello maggiore, Mukesh, 51 anni, che nella classifica dei super miliardari di Forbes è al quinto posto. I recenti crolli borsistici hanno eroso parte delle loro fortune, ma i due fratelli rivali rimangono sempre tra i Paperoni dell’India.
L’ennesima disputa giudiziaria riguarda un’intervista pubblicata dal New York Times lo scorso 15 giugno in cui Mukesh rivela che prima che si spartissero i beni il fratello Ambani era a capo di “una rete di spie e di informatori privati” usati per scoprire i lati deboli della concorrenza. La denuncia per diffamazione, presentata a un tribunale di Mumbai dove ha sede Reliance, coinvolge circa dieci persone e chiede la fantasmagorica cifra di 2 miliardi e mezzo di dollari come risarcimento.
Un’assurdità come tutte quelle che hanno caratterizzato questa faida familiare che si è scatenata dopo la morte del padre Dhirubbai, il venditore di “pakora” (ciambelle salate) del Gujarat, lo stato che ha dato i natali al Mahatma Gandhi e che lui ha lasciato a 16 anni per andare a fare fortuna nel porto di Aden, in Yemen, dove ha iniziato con una pompa di benzina. Ritornato in patria, grazie a un leggendario tocco da re Mida, che ha trasmesso anche ai due figli, ha poi costruito una fortuna esportando spezie e importando poliestere con margini di profitto mai inferiori al 300 per cento.
Mukesh, ingegnere chimico, è oggi a capo di Reliance Industries, conglomerato dell’energia e raffinerie. Mentre Anil, un maratoneta che ogni mattina fa jogging sul lungo mare di Mumbai, si è spartito il resto, le telecomunicazioni e il settore finanziario assicurativo. E ora sta aprendo anche supermercati a raffica. La divisione dei beni era stata fatta nel 2005 dalla madre Kokilaben, il cui intervento era stato provvidenziale per evitare il dissanguamento dell’impero in borsa. Ogni volta i due fratelli incrociano le spade, gli investitori incrociano le dita. Anche questa volta, c’è chi invoca di nuovo la mediazione materna per evitare l’odissea di una prolungata e costosa battaglia legale che è solo l’ultima di una lunga serie. Mukesh e Anil sono in causa per la vendita del gas scoperto nei giacimenti off shore del Golfo del Bengala, che nelle sue profondità nasconderebbe immense ricchezze. Il numero uno di Reliance Industries di recente ha annunciato che i nuovi pozzi metaniferi potrebbero ridurre in maniera considerevole la dipendenza energetica dell’India che oggi importa il 70 per cento del suo fabbisogno. Ma c’è un patto che vincola la vendita di gas alle industrie del fratello Anil.
Negli anni recenti intorno agli Ambani è nato un ricco florilegio di pettegolezzi. Si dice per esempio che i due non prendano mai lo stesso ascensore quando rincasano nel palazzo di 22 piani a Mumbai dove abitano con la madre. Mukesh sta costruendo un grattacielo da un miliardo di dollari, l’Antilia Tower, che avrà il record di essere il più costoso al mondo e che sarà anche il simbolo architettonico della nuova potenza economica indiana. Avrà 60 piani, un garage per cento auto, un eliporto, un centro benessere e appartamenti per 600 persone di servizio. Ma di sicuro per il fratello Ambani non ci sarà nemmeno uno sgabuzzino.
mercoledì 24 settembre 2008
Graziano Trasmissioni, in forse il futuro della fabbrica di Greater Noida
Su Apcom
La Graziano Trasmissioni potrebbe decidere di chiudere il suo impianto di Greater Noida dopo l’assalto di lunedì scorso da parte di 200 operai licenziati culminato nell’uccisione del responsabile Lalit Krishna Chaudhry. Nello stabilimento che sorge nell’hinterland di Nuova Delhi è arrivato oggi Marcello Lamberto, amministratore delegato dell’azienda torinese appartenente al gruppo elvetico Oerlikon. Ha incontrato all’ospedale alcuni dei circa 20 dipendenti rimasti feriti nei tafferugli. Un portavoce legale della società, presente in India dal 1997, ha detto che “non ci sarebbero le condizioni di sicurezza e l’atmosfera non è idonea per proseguire la produzione”. Sotto accusa è anche la polizia locale che è intervenuta con due ore di ritardo quando ormai la tragedia si era consumata. In queste ore è in corso una riunione della dirigenza per decidere le sorti dell’impianto che secondo i piani aziendali doveva essere triplicato per far fronte alla crescente domanda di componenti da parte dell’industria automobilistica.
Intanto il ministro indiano del lavoro Oscar Fernandes si è pubblicamente scusato per aver detto che “l’attacco serve da monito per gli imprenditori”. Il ministro, in una conferenza stampa ieri, si era rifiutato di condannare l’aggressione e aveva esortato i manager a “trattare gli operai con rispetto e umanità”.
La Graziano Trasmissioni potrebbe decidere di chiudere il suo impianto di Greater Noida dopo l’assalto di lunedì scorso da parte di 200 operai licenziati culminato nell’uccisione del responsabile Lalit Krishna Chaudhry. Nello stabilimento che sorge nell’hinterland di Nuova Delhi è arrivato oggi Marcello Lamberto, amministratore delegato dell’azienda torinese appartenente al gruppo elvetico Oerlikon. Ha incontrato all’ospedale alcuni dei circa 20 dipendenti rimasti feriti nei tafferugli. Un portavoce legale della società, presente in India dal 1997, ha detto che “non ci sarebbero le condizioni di sicurezza e l’atmosfera non è idonea per proseguire la produzione”. Sotto accusa è anche la polizia locale che è intervenuta con due ore di ritardo quando ormai la tragedia si era consumata. In queste ore è in corso una riunione della dirigenza per decidere le sorti dell’impianto che secondo i piani aziendali doveva essere triplicato per far fronte alla crescente domanda di componenti da parte dell’industria automobilistica.
Intanto il ministro indiano del lavoro Oscar Fernandes si è pubblicamente scusato per aver detto che “l’attacco serve da monito per gli imprenditori”. Il ministro, in una conferenza stampa ieri, si era rifiutato di condannare l’aggressione e aveva esortato i manager a “trattare gli operai con rispetto e umanità”.
Tata lascia la fabbrica della Nano a Singur?
Su Apcom
Tata Motors starebbe abbandonando la nuova fabbrica in costruzione di Singur, vicino a Calcutta, dedicata alla produzione della minicar Nano. Secondo quanto riportano i giornali indiani, da alcuni giorni dai cancelli dello stabilimento escono camion pieni di pezzi della catena di montaggio. Da parte dell’azienda non ci sono state per ora comunicazioni ufficiali. La produzione potrebbe essere spostata nello stabilimento di Pantnagar, in Uttarakhand, secondo un’indiscrezione del canale Cnn-IBN.
I vertici del colosso automobilistico hanno promesso di rispettare la promessa di lanciare sul mercato la Nano il prossimo mese di ottobre in coincidenza con alcune festività induiste.
La decisione di sospendere il progetto, più volte minacciata dallo stesso Ratan Tata, sarebbe stata presa in seguito all’incidente avvenuto ieri in cui due guardie private sono state aggredite da alcuni sconosciuti entrati nella fabbrica contestata dal partito locale Trinamul Congress che guida il fronte contadino anti esproprio. Le proteste erano iniziate il 24 agosto scorso con picchettaggi ai cancelli e blocchi stradali. La Tata Motors aveva quindi deciso di ritirare gli operai e sospendere il progetto che è uno dei fiori all’occhiello della politica economica del governo a guida comunista del Bengala Occidentale che due anni fa ha espropriato le terre. Tata Motors aveva respinto l’accordo del 7 settembre tra il movimento contadino e le autorità locali - raggiunto grazie alla mediazione del governatore Gopal Krishna Gandhi, uno dei nipoti del Mahatma - che prevedeva la restituzione di parte delle terre ai contadini di Singur.
Tata Motors starebbe abbandonando la nuova fabbrica in costruzione di Singur, vicino a Calcutta, dedicata alla produzione della minicar Nano. Secondo quanto riportano i giornali indiani, da alcuni giorni dai cancelli dello stabilimento escono camion pieni di pezzi della catena di montaggio. Da parte dell’azienda non ci sono state per ora comunicazioni ufficiali. La produzione potrebbe essere spostata nello stabilimento di Pantnagar, in Uttarakhand, secondo un’indiscrezione del canale Cnn-IBN.
I vertici del colosso automobilistico hanno promesso di rispettare la promessa di lanciare sul mercato la Nano il prossimo mese di ottobre in coincidenza con alcune festività induiste.
La decisione di sospendere il progetto, più volte minacciata dallo stesso Ratan Tata, sarebbe stata presa in seguito all’incidente avvenuto ieri in cui due guardie private sono state aggredite da alcuni sconosciuti entrati nella fabbrica contestata dal partito locale Trinamul Congress che guida il fronte contadino anti esproprio. Le proteste erano iniziate il 24 agosto scorso con picchettaggi ai cancelli e blocchi stradali. La Tata Motors aveva quindi deciso di ritirare gli operai e sospendere il progetto che è uno dei fiori all’occhiello della politica economica del governo a guida comunista del Bengala Occidentale che due anni fa ha espropriato le terre. Tata Motors aveva respinto l’accordo del 7 settembre tra il movimento contadino e le autorità locali - raggiunto grazie alla mediazione del governatore Gopal Krishna Gandhi, uno dei nipoti del Mahatma - che prevedeva la restituzione di parte delle terre ai contadini di Singur.
martedì 23 settembre 2008
Assalto alla fabbrica della Graziano, le reazioni degli imprenditori italiani
Su Apcom
L’assalto alla fabbrica della Graziano Trasmissioni a Greater Noida e il pestaggio a morte del suo direttore indiano L.K. Chaudhry da parte di un gruppo di operai ha creato sbigottimento e paura tra la comunità di imprenditori italiani che hanno stabilimenti e uffici in India. “Sta diventando sempre più difficile lavorare in queste condizioni in cui nessuno ci protegge – si lamenta Giorgia Rapezzi, imprenditrice bolognese a capo della fabbrica tessile Jato che ha sede a Noida, il polo industriale alle porte di Nuova Delhi. “La nostra area fa parte dello stato dell’Uttar Pradesh dove c’è un alto grado di corruzione nella polizia – spiega - .Non c’è nessuno in grado di proteggerci da episodi come quello avvenuto alla Graziano”. Il gruppo Jato è tra i pionieri italiani in India essendo arrivato nel 1985 e impiega circa 100 addetti. “Ho avuto anch’io in passato dei momenti di forte tensione con il personale che spesso è fomentato da alcune frange sindacali” aggiunge. Secondo un altro dirigente italiano, con uffici a Noida, “l’India sta vivendo un momento di forti tensioni sociali e di un aumento dei sentimenti nazionalistici. La crisi mondiale inoltre sta mettendo più pressione sulle aziende. Come straniero cerco di muovermi in punta di piedi ricordandomi sempre che questa non è casa mia. In India non ci si può permettere di sbagliare”. Nessuno delle persone interpellate ha però detto di aver preso contromisure o aumentato il livello di sicurezza davanti agli uffici. L’opinione diffusa è che si tratta “di un caso isolato che purtroppo è degenerato in un omicidio”. Ma un altro imprenditore italiano, che ha alle dipendenze circa 250 operai, punta il dito contro il “clima di anarchia diffusa” in India e per quanto riguarda i sindacati aggiunge: “se non si vogliono avere problemi bisogna pagare ai leader sindacali una somma mensile: è così che si fa se si vuole sopravvivere qui”.
Secondo una portavoce della Graziano Trasmissioni, che ha sede a Rivoli, in provincia di Torino, la questione è nata lo scorso giugno quando l’azienda ha “sospeso” per irregolarità durante uno sciopero ben 200 operai su un totale di circa 600. La decisione aveva scatenato proteste e picchetti davanti allo stabilimento di Greater Noida che confina con quello della New Holland Tractors. Secondo un comunicato diffuso oggi dalla società torinese, gli scioperanti “dovevano stare a 300 metri di distanza dal muro di cinta”. Verso mezzogiorno, ora locale, di ieri un gruppo di operai licenziati insieme ad altri “regolari” ha forzato i cancelli e con bastoni e spranghe ha preso d’assalto lo stabilimento che era protetto da circa 30 guardie private. Il manager Chaudhry, 44 anni, da 10 anni alla guida dell’azienda, sarebbe stato picchiato in testa con un martello. E’ morto poco dopo all’ospedale. Ne sono seguiti dei violenti scontri tra dimostranti e personale che hanno lasciato 25 feriti, tra cui diversi manager. “Tutti gli uffici sono stati devastati e la produzione è sospesa in quanto la fabbrica è sotto indagine” dicono dalla Graziano che ha anche confermato la presenza di cinque professionisti italiani, tre dipendenti e due consulenti, che sono scampati al pestaggio e che hanno lasciato ieri sera l’India.
Intanto la polizia ha arrestato 13 operai con l’accusa di omicidio e detenuto altri 136 per atti di vandalismo.
L’assalto alla fabbrica della Graziano Trasmissioni a Greater Noida e il pestaggio a morte del suo direttore indiano L.K. Chaudhry da parte di un gruppo di operai ha creato sbigottimento e paura tra la comunità di imprenditori italiani che hanno stabilimenti e uffici in India. “Sta diventando sempre più difficile lavorare in queste condizioni in cui nessuno ci protegge – si lamenta Giorgia Rapezzi, imprenditrice bolognese a capo della fabbrica tessile Jato che ha sede a Noida, il polo industriale alle porte di Nuova Delhi. “La nostra area fa parte dello stato dell’Uttar Pradesh dove c’è un alto grado di corruzione nella polizia – spiega - .Non c’è nessuno in grado di proteggerci da episodi come quello avvenuto alla Graziano”. Il gruppo Jato è tra i pionieri italiani in India essendo arrivato nel 1985 e impiega circa 100 addetti. “Ho avuto anch’io in passato dei momenti di forte tensione con il personale che spesso è fomentato da alcune frange sindacali” aggiunge. Secondo un altro dirigente italiano, con uffici a Noida, “l’India sta vivendo un momento di forti tensioni sociali e di un aumento dei sentimenti nazionalistici. La crisi mondiale inoltre sta mettendo più pressione sulle aziende. Come straniero cerco di muovermi in punta di piedi ricordandomi sempre che questa non è casa mia. In India non ci si può permettere di sbagliare”. Nessuno delle persone interpellate ha però detto di aver preso contromisure o aumentato il livello di sicurezza davanti agli uffici. L’opinione diffusa è che si tratta “di un caso isolato che purtroppo è degenerato in un omicidio”. Ma un altro imprenditore italiano, che ha alle dipendenze circa 250 operai, punta il dito contro il “clima di anarchia diffusa” in India e per quanto riguarda i sindacati aggiunge: “se non si vogliono avere problemi bisogna pagare ai leader sindacali una somma mensile: è così che si fa se si vuole sopravvivere qui”.
Secondo una portavoce della Graziano Trasmissioni, che ha sede a Rivoli, in provincia di Torino, la questione è nata lo scorso giugno quando l’azienda ha “sospeso” per irregolarità durante uno sciopero ben 200 operai su un totale di circa 600. La decisione aveva scatenato proteste e picchetti davanti allo stabilimento di Greater Noida che confina con quello della New Holland Tractors. Secondo un comunicato diffuso oggi dalla società torinese, gli scioperanti “dovevano stare a 300 metri di distanza dal muro di cinta”. Verso mezzogiorno, ora locale, di ieri un gruppo di operai licenziati insieme ad altri “regolari” ha forzato i cancelli e con bastoni e spranghe ha preso d’assalto lo stabilimento che era protetto da circa 30 guardie private. Il manager Chaudhry, 44 anni, da 10 anni alla guida dell’azienda, sarebbe stato picchiato in testa con un martello. E’ morto poco dopo all’ospedale. Ne sono seguiti dei violenti scontri tra dimostranti e personale che hanno lasciato 25 feriti, tra cui diversi manager. “Tutti gli uffici sono stati devastati e la produzione è sospesa in quanto la fabbrica è sotto indagine” dicono dalla Graziano che ha anche confermato la presenza di cinque professionisti italiani, tre dipendenti e due consulenti, che sono scampati al pestaggio e che hanno lasciato ieri sera l’India.
Intanto la polizia ha arrestato 13 operai con l’accusa di omicidio e detenuto altri 136 per atti di vandalismo.
lunedì 22 settembre 2008
Manager della Graziano Trasmissioni picchiato a morte dagli operai licenziati
Su Apcom
Il direttore della filiale indiana di Graziano Trasmissioni che ha la sede a Noida, alla periferia di Nuova Delhi, è stato ucciso oggi da un gruppo di operai licenziati. Il manager Lalit Kishore Chaudhury si trovata nel suo ufficio con un gruppo di operai quando è scoppiato un violento diverbio su questioni sindacali. Chaudhury è stato linciato e colpito con violenza alla testa. E’ morto all’ospedale poco dopo l’incidente.
La polizia ha arrestato diverse decine di addetti dell’azienda che è specializzata nella produzione di cambi e trasmissioni destinati al mercato indiano e all’esportazione. Qualche anno fa aveva potenziato la fabbrica che si trova in un’area industriale dedicata all’indotto dell’auto. Circa due mesi fa la Graziano aveva licenziato circa 200 operai che si trovavano oggi all’interno della fabbrica per una riunione con la direzione.
Il direttore della filiale indiana di Graziano Trasmissioni che ha la sede a Noida, alla periferia di Nuova Delhi, è stato ucciso oggi da un gruppo di operai licenziati. Il manager Lalit Kishore Chaudhury si trovata nel suo ufficio con un gruppo di operai quando è scoppiato un violento diverbio su questioni sindacali. Chaudhury è stato linciato e colpito con violenza alla testa. E’ morto all’ospedale poco dopo l’incidente.
La polizia ha arrestato diverse decine di addetti dell’azienda che è specializzata nella produzione di cambi e trasmissioni destinati al mercato indiano e all’esportazione. Qualche anno fa aveva potenziato la fabbrica che si trova in un’area industriale dedicata all’indotto dell’auto. Circa due mesi fa la Graziano aveva licenziato circa 200 operai che si trovavano oggi all’interno della fabbrica per una riunione con la direzione.
Hari Puttar vince la battaglia contro Harry Potter
Su Apcom
Il film indiano “Hari Puttar”, che ha come protagonista un bambino di 10 anni, non viola il copyright del nome Harry Potter che appartiene al gruppo americano Warner Bros. Un tribunale di Nuova Delhi ha respinto oggi le accuse di plagio rivolte dal colosso di Hollywood contro la Mirchi Movies, uno dei produttori di Bollywood, la prolifica industria cinematografica indiana, mettendo così fine a una lunga disputa iniziata oltre un anno fa.
La pellicola in hindi, intitolata “Hari Puttar. A comedy of Terrors”, potrà quindi uscire nelle sale indiane venerdì prossimo e sarà di sicuro destinata a fare il pienone al botteghino grazie alla pubblicità indiretta causata dalla lunga diatriba legale.
In dialetto punjabi “Puttar” significa “figlio”, mentre Hari è un nome molto popolare nel nord dell’India. A differenza della fortunata serie di libri e film dedicata al “maghetto” Harry Potter, il film diretto da Lucky Kohli e Rajesh Bajaj racconta di un bambino che si è trasferito a Londra con la famiglia e che, rimasto da solo a casa, combina un guaio dopo l’altro, ma riesce a evitare il furto di un chip contenente documenti segreti. Sembra piuttosto ricalcato sulla popolare serie cinematografica hollywoodiana “Home Alone”.
Il film indiano “Hari Puttar”, che ha come protagonista un bambino di 10 anni, non viola il copyright del nome Harry Potter che appartiene al gruppo americano Warner Bros. Un tribunale di Nuova Delhi ha respinto oggi le accuse di plagio rivolte dal colosso di Hollywood contro la Mirchi Movies, uno dei produttori di Bollywood, la prolifica industria cinematografica indiana, mettendo così fine a una lunga disputa iniziata oltre un anno fa.
La pellicola in hindi, intitolata “Hari Puttar. A comedy of Terrors”, potrà quindi uscire nelle sale indiane venerdì prossimo e sarà di sicuro destinata a fare il pienone al botteghino grazie alla pubblicità indiretta causata dalla lunga diatriba legale.
In dialetto punjabi “Puttar” significa “figlio”, mentre Hari è un nome molto popolare nel nord dell’India. A differenza della fortunata serie di libri e film dedicata al “maghetto” Harry Potter, il film diretto da Lucky Kohli e Rajesh Bajaj racconta di un bambino che si è trasferito a Londra con la famiglia e che, rimasto da solo a casa, combina un guaio dopo l’altro, ma riesce a evitare il furto di un chip contenente documenti segreti. Sembra piuttosto ricalcato sulla popolare serie cinematografica hollywoodiana “Home Alone”.
Mukesh Ambani promette gas e petrolio dal Golfo del Bengala
Su Apcom
Il colosso petrolchimico Reliance Industries ha annunciato che aumenterà del 40% la produzione petrolifera nazionale grazie all’avvio dello sfruttamento di un giacimento offshore nel Golfo del Bengala dove esistono grandi riserve di gas naturale. A una conferenza stampa ieri a Mumbai, il magnate Mukesh Ambani, mostrando un flacone contenente il primo litro di “oro nero”, ha detto che l’estrazione di petrolio e di gas dal blocco “D6” del bacino Krishna Godavari passerà dagli attuali 5000 barili a 550 mila barili al giorno entro i prossimi 18-24 mesi. Il che significa un risparmio di 20 miliardi di dollari all’anno per la bolletta petrolifera dell’India che attualmente importa i due terzi del suo fabbisogno energetico.
Il giacimento D6, ricco soprattutto di gas, è stato scoperto da Reliance soltanto due anni fa e si trova in acque profonde a circa 50 chilometri dalla costa dello stato orientale dell’Andhra Pradesh. Appartiene per il 10 per cento alla società canadese Niko Resources. La nuova produzione farà di Reliance Industries, che è la più grande azienda indiana per capitalizzazione in borsa, una dei venti colossi dell’energia mondiale. Ma per quanto riguarda la vendita di gas Mukesh Ambani dovrà aspettare la sentenza del tribunale di Mumbai su una disputa commerciale con il fratello minore Anil che guida il settore telecomunicazioni e investimenti dell’impero fondato da Dhirubbhai Ambani, l’ex benzinaio emigrato in Yemen.
Il colosso petrolchimico Reliance Industries ha annunciato che aumenterà del 40% la produzione petrolifera nazionale grazie all’avvio dello sfruttamento di un giacimento offshore nel Golfo del Bengala dove esistono grandi riserve di gas naturale. A una conferenza stampa ieri a Mumbai, il magnate Mukesh Ambani, mostrando un flacone contenente il primo litro di “oro nero”, ha detto che l’estrazione di petrolio e di gas dal blocco “D6” del bacino Krishna Godavari passerà dagli attuali 5000 barili a 550 mila barili al giorno entro i prossimi 18-24 mesi. Il che significa un risparmio di 20 miliardi di dollari all’anno per la bolletta petrolifera dell’India che attualmente importa i due terzi del suo fabbisogno energetico.
Il giacimento D6, ricco soprattutto di gas, è stato scoperto da Reliance soltanto due anni fa e si trova in acque profonde a circa 50 chilometri dalla costa dello stato orientale dell’Andhra Pradesh. Appartiene per il 10 per cento alla società canadese Niko Resources. La nuova produzione farà di Reliance Industries, che è la più grande azienda indiana per capitalizzazione in borsa, una dei venti colossi dell’energia mondiale. Ma per quanto riguarda la vendita di gas Mukesh Ambani dovrà aspettare la sentenza del tribunale di Mumbai su una disputa commerciale con il fratello minore Anil che guida il settore telecomunicazioni e investimenti dell’impero fondato da Dhirubbhai Ambani, l’ex benzinaio emigrato in Yemen.
domenica 21 settembre 2008
Continua vandalismo contro chiese in Karnataka
Su Radio Vaticana
Nonostante gli avvertimenti lanciati dal governo centrale di New Delhi, continuano gli attacchi contro le chiese nel sud dell’India. Ieri nello stato del Karnataka quattro chiese, tre a Bangalore e una nel distretto di Kodagu, sono state oggetto di vandalismo da parte da gruppi di sospetti estremisti indù che hanno preso le vetrate a sassate, saccheggiato le sacrestie e deturpato statue sacre e mobili. I fatti sono successi nella notte e nelle prime ore del mattino. La polizia ha riferito di aver fermato alcuni dei presunti vandali. Ma l’organizzazione della destra induista Vishwa Hindu Parishad, il Consiglio Mondiale Indù, responsabile delle sanguinose persecuzioni in Orissa, ha negato di essere responsabili degli attacchi. Una settimana fa bande legate al gruppo radicale Bajrang Dal avevano vandalizzato una ventina di chiese in altre parti del Karnataka, in particolare a Mangalore, provocando violenti scontri tra le due comunità religiose in cui sono rimaste ferite decine di persone tra cui molti poliziotti. Secondo notizie di stampa anche due luoghi di culto cristiani a Kochi, nel vicino Kerala sarebbero stati presi d’assalto da gruppi vandalici sabato notte.
Il governo del Karnataka, guidato dal partito indù nazionalista del Bjp, e dove la minoranza cristiana rappresenta solo il 2 per cento, aveva ricevuto un avvertimento da parte del governo centrale che in base ad un articolo della costituzione potrebbe prendere azioni contro le autorità locali qualora non siano in grado di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica. Un simile richiamo era stato emanato anche per lo stato nord orientale dell’Orissa dove alla fine di agosto è scoppiata l’ondata di violenza anti cristiana che si sta ora propagando nel resto dell’India.
Nonostante gli avvertimenti lanciati dal governo centrale di New Delhi, continuano gli attacchi contro le chiese nel sud dell’India. Ieri nello stato del Karnataka quattro chiese, tre a Bangalore e una nel distretto di Kodagu, sono state oggetto di vandalismo da parte da gruppi di sospetti estremisti indù che hanno preso le vetrate a sassate, saccheggiato le sacrestie e deturpato statue sacre e mobili. I fatti sono successi nella notte e nelle prime ore del mattino. La polizia ha riferito di aver fermato alcuni dei presunti vandali. Ma l’organizzazione della destra induista Vishwa Hindu Parishad, il Consiglio Mondiale Indù, responsabile delle sanguinose persecuzioni in Orissa, ha negato di essere responsabili degli attacchi. Una settimana fa bande legate al gruppo radicale Bajrang Dal avevano vandalizzato una ventina di chiese in altre parti del Karnataka, in particolare a Mangalore, provocando violenti scontri tra le due comunità religiose in cui sono rimaste ferite decine di persone tra cui molti poliziotti. Secondo notizie di stampa anche due luoghi di culto cristiani a Kochi, nel vicino Kerala sarebbero stati presi d’assalto da gruppi vandalici sabato notte.
Il governo del Karnataka, guidato dal partito indù nazionalista del Bjp, e dove la minoranza cristiana rappresenta solo il 2 per cento, aveva ricevuto un avvertimento da parte del governo centrale che in base ad un articolo della costituzione potrebbe prendere azioni contro le autorità locali qualora non siano in grado di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica. Un simile richiamo era stato emanato anche per lo stato nord orientale dell’Orissa dove alla fine di agosto è scoppiata l’ondata di violenza anti cristiana che si sta ora propagando nel resto dell’India.
Pakistan, soccorritori al lavoro per cercare superstiti tra le rovine del Marriott
Su Radio Svizzera Italiana
A distanza di molte ore dal grave attentato contro l’hotel Marriott, squadre di soccorritori sono ancora al lavoro alla ricerca di corpi e di eventuali superstiti intrappolati tra le macerie ancora fumanti dell’albergo che era tra i più popolari ritrovi nell’area diplomatica della capitale pachistana. Mentre giungono le condanne della comunità internazionale, emergono nuovi particolari sulla strage che non è stata rivendicata, ma che si pensa sia opera dei gruppi talebani attivi nelle regioni del nord ovest dove da mesi sono in corso violenti scontri con l’esercito. A provocare la potentissima deflagrazione che ha lasciato un cratere profondo sei metri sarebbe stato un camion carico di mille chili di esplosivo lanciato contro la barriera metallica di sicurezza che sorge all’ingresso dell’hotel già in passato obiettivo di altri attentati, ma di minore gravità. Al momento dello scoppio nell’edificio si trovavano centinaia di clienti, soprattutto nei ristoranti che in coincidenza con il ramadan erano particolarmente affollati. Tra le vittime ci sono diversi stranieri, tra cui l’ambasciatore della Repubblica Ceca, che pochi minuti dopo l’esplosione aveva chiamato con il telefonino chiedendo aiuto.
Ieri sera dopo l’attentato il neo presidente Asif Ali Zardari, che poche ore prima aveva pronunciato il suo discorso inaugurale nel vicino parlamento, è comparso in televisione per ribadire l’impegno del suo governo a sconfiggere quello che ha definito il “cancro” del terrorismo e che nell’ultimo anno ha causato in totale 1200 vittime, tra cui sua moglie, Benazir Bhutto, la leader ritornata dall’esilio, uccisa da un attentato lo scorso dicembre.
A distanza di molte ore dal grave attentato contro l’hotel Marriott, squadre di soccorritori sono ancora al lavoro alla ricerca di corpi e di eventuali superstiti intrappolati tra le macerie ancora fumanti dell’albergo che era tra i più popolari ritrovi nell’area diplomatica della capitale pachistana. Mentre giungono le condanne della comunità internazionale, emergono nuovi particolari sulla strage che non è stata rivendicata, ma che si pensa sia opera dei gruppi talebani attivi nelle regioni del nord ovest dove da mesi sono in corso violenti scontri con l’esercito. A provocare la potentissima deflagrazione che ha lasciato un cratere profondo sei metri sarebbe stato un camion carico di mille chili di esplosivo lanciato contro la barriera metallica di sicurezza che sorge all’ingresso dell’hotel già in passato obiettivo di altri attentati, ma di minore gravità. Al momento dello scoppio nell’edificio si trovavano centinaia di clienti, soprattutto nei ristoranti che in coincidenza con il ramadan erano particolarmente affollati. Tra le vittime ci sono diversi stranieri, tra cui l’ambasciatore della Repubblica Ceca, che pochi minuti dopo l’esplosione aveva chiamato con il telefonino chiedendo aiuto.
Ieri sera dopo l’attentato il neo presidente Asif Ali Zardari, che poche ore prima aveva pronunciato il suo discorso inaugurale nel vicino parlamento, è comparso in televisione per ribadire l’impegno del suo governo a sconfiggere quello che ha definito il “cancro” del terrorismo e che nell’ultimo anno ha causato in totale 1200 vittime, tra cui sua moglie, Benazir Bhutto, la leader ritornata dall’esilio, uccisa da un attentato lo scorso dicembre.
sabato 20 settembre 2008
Islamabad, hotel Marriott in fiamme dopo autobomba
Su Radio Svizzera Italiana
E’ stata una delle più grandi esplosioni mai avvenute a Islamabad e in una zona considerata una delle più sicure della capitale. Secondo alcuni testimoni sarebbe stata un’autobomba a devastare l’hotel Marriott, uno dei cinque stelle più popolari soprattutto tra gli stranieri e che in passato era già stato obiettivo di attentati. L’esplosione ha sprigionato un incendio che in poco tempo è divampato nei piani superiori e si è trasformato in un devastante rogo. Le fiamme non sono ancora state domate e potrebbero distruggere completamente le 300 stanze dell’hotel. Si teme che molte persone siano intrappolate all’interno, ma la situazione a poche ore dal tremendo scoppio è ancora troppo confusa e caotica per tracciare un bilancio dei danni.
Potrebbe non essere solo una coincidenza che questo ennesimo attacco sia avvenuto poche ore dopo il discorso d’esordio del presidente Asif Ali Zardari ai due rami del parlamento. Riferendosi alle recenti incursioni dall’Afghanistan delle forze americane contro presunti obiettivi islamici, il vedovo di Benazir Bhutto ha ribadito la posizione del governo di non permettere violazioni della sovranità nazionali. Ha poi chiesto al parlamento di ridurre i poteri costituzionali del presidente che ha la facoltà di sciogliere le camere. Abbastanza a sorpresa, ha poi promesso di avviare un dibattito parlamentare sulla sicurezza e sulla lotta al terrorismo. Zardari dovrebbe essere martedì a NY per l’assemblea generale delle Nazioni Unite. E’ previsto anche il suo primo incontro con Bush che si prospetta estremamente delicato per la divergenza di opinioni nella strategia di lotta contro il terrorismo islamico che oggi ha dimostrato di essere in grado di colpire uno dei luoghi più protetti della capitale pachistana.
E’ stata una delle più grandi esplosioni mai avvenute a Islamabad e in una zona considerata una delle più sicure della capitale. Secondo alcuni testimoni sarebbe stata un’autobomba a devastare l’hotel Marriott, uno dei cinque stelle più popolari soprattutto tra gli stranieri e che in passato era già stato obiettivo di attentati. L’esplosione ha sprigionato un incendio che in poco tempo è divampato nei piani superiori e si è trasformato in un devastante rogo. Le fiamme non sono ancora state domate e potrebbero distruggere completamente le 300 stanze dell’hotel. Si teme che molte persone siano intrappolate all’interno, ma la situazione a poche ore dal tremendo scoppio è ancora troppo confusa e caotica per tracciare un bilancio dei danni.
Potrebbe non essere solo una coincidenza che questo ennesimo attacco sia avvenuto poche ore dopo il discorso d’esordio del presidente Asif Ali Zardari ai due rami del parlamento. Riferendosi alle recenti incursioni dall’Afghanistan delle forze americane contro presunti obiettivi islamici, il vedovo di Benazir Bhutto ha ribadito la posizione del governo di non permettere violazioni della sovranità nazionali. Ha poi chiesto al parlamento di ridurre i poteri costituzionali del presidente che ha la facoltà di sciogliere le camere. Abbastanza a sorpresa, ha poi promesso di avviare un dibattito parlamentare sulla sicurezza e sulla lotta al terrorismo. Zardari dovrebbe essere martedì a NY per l’assemblea generale delle Nazioni Unite. E’ previsto anche il suo primo incontro con Bush che si prospetta estremamente delicato per la divergenza di opinioni nella strategia di lotta contro il terrorismo islamico che oggi ha dimostrato di essere in grado di colpire uno dei luoghi più protetti della capitale pachistana.
mercoledì 17 settembre 2008
India, a rischio 20-25 mila posto di lavoro nell'IT
Su Apcom
Il terremoto finanziario negli Stati Uniti potrebbe provocare una perdita di 20-25 mila posti di lavoro in India, in particolare nel settore dell’Information Technology (IT) e dell’outsourcing di servizi bancari e finanziari. “C’è il timore che nei prossimi trimestri le maggiori industrie indiane dell’IT annunceranno una grande quantità di licenziamenti” scrive oggi il quotidiano "Times of India". Oltre il 40 per cento del giro d’affari delle principali aziende indiane dell’informatica, come Wipro, Infosys, Tata Consultancy Service o Satyam proviene dall’outsourcing di servizi bancari, finanziari e assicurativi, soprattutto da parte dei colossi americani, come Lehman Brothers o Merrill Lynch.
E’ anche incerto quale sarà il destino degli oltre 2300 professionisti che a vario titolo lavorano per la filiale indiana di Lehman Brothers che ha sede a Mumbai. Dopo essere stati completamente colti di sorpresa dall’annuncio della bancarotta del colosso finanziario americano, sarebbero ora alla ricerca di un nuovo lavoro. A patire le ripercussioni del collasso, sarebbero anche i neolaureati delle prestigiose scuole professionali IIM (Indian Institute of Management) che costituiscono il vivaio di cervelli a basso costo per molti dei colossi di Wall Street. A conferma delle plumbee previsioni, è arrivata ieri la notizia che Satyam Computer, quarta più grande azienda indiana di software con sede ad Hyderabad, ha accusato pesanti perdite a causa della diminuzione di ordini da parte dei clienti americani e che sarà costretta a tagliare il 9 per cento della forza lavoro.
Il terremoto finanziario negli Stati Uniti potrebbe provocare una perdita di 20-25 mila posti di lavoro in India, in particolare nel settore dell’Information Technology (IT) e dell’outsourcing di servizi bancari e finanziari. “C’è il timore che nei prossimi trimestri le maggiori industrie indiane dell’IT annunceranno una grande quantità di licenziamenti” scrive oggi il quotidiano "Times of India". Oltre il 40 per cento del giro d’affari delle principali aziende indiane dell’informatica, come Wipro, Infosys, Tata Consultancy Service o Satyam proviene dall’outsourcing di servizi bancari, finanziari e assicurativi, soprattutto da parte dei colossi americani, come Lehman Brothers o Merrill Lynch.
E’ anche incerto quale sarà il destino degli oltre 2300 professionisti che a vario titolo lavorano per la filiale indiana di Lehman Brothers che ha sede a Mumbai. Dopo essere stati completamente colti di sorpresa dall’annuncio della bancarotta del colosso finanziario americano, sarebbero ora alla ricerca di un nuovo lavoro. A patire le ripercussioni del collasso, sarebbero anche i neolaureati delle prestigiose scuole professionali IIM (Indian Institute of Management) che costituiscono il vivaio di cervelli a basso costo per molti dei colossi di Wall Street. A conferma delle plumbee previsioni, è arrivata ieri la notizia che Satyam Computer, quarta più grande azienda indiana di software con sede ad Hyderabad, ha accusato pesanti perdite a causa della diminuzione di ordini da parte dei clienti americani e che sarà costretta a tagliare il 9 per cento della forza lavoro.
lunedì 15 settembre 2008
Pakistan, fuoco su elicotteri Usa al confine afghano
In onda su Radio Svizzera Italiana
Come prevedibile il Pentagono ha smentito la notizia secondo la quale l’esercito pachistano avrebbe sparato contro due elicotteri americani che all’alba di ieri erano sconfinati nel Sud del Waziristan. Ma secondo testimonianze raccolte sul posto nel villaggio di Agar Adda dove sarebbe avvenuta l’incursione, le forze pachistane e anche gruppi tribali armati avrebbero aperto il fuoco costringendo gli elicotteri a ritornare oltre confine in territorio afghano. Se questa versione corrisponde alla verità, è la conferma che l’alleanza con Washington si sta sempre più incrinando. La scorsa settimana, il capo delle forze armate, il generale Ashfaq Kayani, aveva promesso di difendere a ogni costo la sovranità e l’integrità territoriale pachistana che nelle ultime settimane era stata più volte violata da raid americani contro presunte basi di militanti islamici in Waziristan. Lo scorso 3 settembre un commando di marines era stato accusato di aver fatto strage di una ventina di persone in una località non molto distante dove ieri i militari pachistani avrebbero aperto il fuoco. E’ ormai evidente che la Casa Bianca non ha più fiducia nel suo alleato nonostante il cambio della guardia a Islamabad dove al potere c’è ora Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, una leader considerata filo americana. Il neo presidente si trova ora a Londra e la prossima settimana sarà a Washington dove discuterà con Bush del nuovo cambio di strategia.
Come prevedibile il Pentagono ha smentito la notizia secondo la quale l’esercito pachistano avrebbe sparato contro due elicotteri americani che all’alba di ieri erano sconfinati nel Sud del Waziristan. Ma secondo testimonianze raccolte sul posto nel villaggio di Agar Adda dove sarebbe avvenuta l’incursione, le forze pachistane e anche gruppi tribali armati avrebbero aperto il fuoco costringendo gli elicotteri a ritornare oltre confine in territorio afghano. Se questa versione corrisponde alla verità, è la conferma che l’alleanza con Washington si sta sempre più incrinando. La scorsa settimana, il capo delle forze armate, il generale Ashfaq Kayani, aveva promesso di difendere a ogni costo la sovranità e l’integrità territoriale pachistana che nelle ultime settimane era stata più volte violata da raid americani contro presunte basi di militanti islamici in Waziristan. Lo scorso 3 settembre un commando di marines era stato accusato di aver fatto strage di una ventina di persone in una località non molto distante dove ieri i militari pachistani avrebbero aperto il fuoco. E’ ormai evidente che la Casa Bianca non ha più fiducia nel suo alleato nonostante il cambio della guardia a Islamabad dove al potere c’è ora Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, una leader considerata filo americana. Il neo presidente si trova ora a Londra e la prossima settimana sarà a Washington dove discuterà con Bush del nuovo cambio di strategia.
Il "maoista" Prachanda nel tempio del capitalismo indiano
Su Apcom
Per la sua prima visita di stato in India ha preferito farsi chiamare con il suo vero nome Puspha Kamal Dahal e poi tra virgolette “Prachanda”. Il leader maoista nepalese salito al potere un mese fa si trova da oggi a Nuova Delhi insieme a quattro ministri e a una delegazione di imprenditori. E’ il primo test politico internazionale per questo ex guerrigliero di 53 anni uscito dalla clandestinità nel 2006 per unirsi al fronte dei partiti anti monarchici che hanno guidato la rivolta pacifica di Kathmandu culminata con la detronizzazione del dispotico re Gyanendra. Dopo aver trionfato nelle elezioni dello scorso aprile, gli ex ribelli maoisti di Prachanda hanno iniziato un’operazione di immagine per farsi accettare dalla comunità internazionale. L’India, tradizionale e influente partner politico e commerciale, che in un primo tempo aveva appoggiato la monarchia induista, sembra ora accogliere a braccia aperte la nuova compagine governativa di Kathmandu soprattutto perché significa riallacciare rapporti commerciali che erano stati sospesi durante gli anni di instabilità e di tumulti a Kathmandu.
L’India è allettata dalle vaste risorse idriche del versante nepalese dell’Himalaya e dalla possibilità di trasformarle in preziosa energia idroelettrica di cui ha bisogno per assicurare la sua crescita.
Parlando davanti a una platea di imprenditori della Confindustria e delle Camere di Commercio, ovvero nel tempio del capitalismo indiano, Prachanda ha illustrato la sua agenda politica che, a dispetto delle sue origini ideologiche marxiste leniniste è completamente improntata a un liberalismo economico e a uno sviluppo guidato dal settore privato. “Tutti sanno oggi che il business è il motore della crescita – ha detto leggendo un discorso in inglese - Sono pienamente cosciente che pace e stabilità in Nepal possono essere solo assicurati con un rapido progresso nello sviluppo economico. Senza la presenza di un dinamico settore privato il governo da solo non può garantire il rapido raggiungimento dello sviluppo”. Prachanda, il nome di battaglia che significa “Il fiero” e che per ora il neo premier non sembra voler abbandonare, ha quindi invitato gli industriali indiani ad investire in Nepal “in tutti i settori” e ha promesso di riformare la politica industriale istituendo una speciale commissione per gli Investimenti Pubblici presieduta da lui stesso. Ha anche annunciato l’istituzione Zone Economiche speciali per “promuovere le esportazioni”. Atttualmente la bilancia commerciale con l’India presenta un forte disavanzo.
Nell’agenda delle discussioni con il primo ministro Manmohan Singh, con cui è prevista una cena stasera, anche la polemica sulla manutenzione diga sul fiume Kosi, sul confine indo-nepalese e la cui rottura avrebbe provocato il disastro nello stato indiano del Bihar dove 250 mila persone sono rimaste senza tetto.
Sembra invece superata la controversia nata su una visita di Prachanda a Pechino per la cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici che è stata la sua prima uscita ufficiale dopo il suo insediamento del 18 agosto. Questo suo viaggio in Cina aveva irritato Nuova Delhi che teme l’ingerenza della Cina negli affari nepalesi. Rispondendo a una domanda dei giornalisti, l’ex ribelle maoista - in giacca e cravatta invece del tradizionale costume nepalese dei suoi predecessori - ha detto che “l’interdipendenza economica con l’India è cruciale e vitale’’ e che pur volendo il suo governo sviluppare relazioni con la Cina, “non c’è alcun paragone con l’intesa storica, culturale e geografica con l’India”.
domenica 14 settembre 2008
Bombe a Delhi, il ruolo degli Indian Mujahiddin
Su Radio Svizzera Italianza
A distanza di quasi tre anni, una catena di attentati ha colpito di nuovo i più popolari mercati e i luoghi simbolo della moderna New Delhi. Come nell’ottobre del 2005 anche ieri l’India era alla vigilia di una festività religiosa induista. Le cinque bombe esplose e le altre trovate da passanti e dalla polizia, erano state piazzate in un’ora di punta in luoghi particolarmente affollati e frequentati dalla nuova classe emergente come nella popolare Connaught Place, che il cuore commerciale della capitale. Ci sono evidenti similarità con la serie di attentatati multipli di luglio ad Amehdabad, in Gujarat, e di maggio a Jaipur, meta turistica del Rajasthan. Secondo gli investigatori sarebbero stati usati gli stessi materiali per fabbricare le bombe, la maggior parte nascoste nei cestini. Risulta quindi molto credibile la rivendicazione giunta anche questa volta attraverso un lunga e-mail degli Indian Mujahiddin, un nome sconosciuto fino a poco tempo fa e che sarebbe il braccio armato del SIMI, un movimenti islamico studentesco clandestino che fa proselitismo tra i giovani mussulmani indiani istruiti. E questa la vera novità della re-crudescenza del terrorismo in India che non avrebbe più l’impronta diretta dei servizi segreti pachistani, spesso accusati in passato dal governo indiano, ma arriverebbe dall’interno della vasta minoranza mussulmana che rappresenta il 20% circa della popolazione e che è sempre più animata dall’idea di una jihad globale e da sentimenti anti americani.
A distanza di quasi tre anni, una catena di attentati ha colpito di nuovo i più popolari mercati e i luoghi simbolo della moderna New Delhi. Come nell’ottobre del 2005 anche ieri l’India era alla vigilia di una festività religiosa induista. Le cinque bombe esplose e le altre trovate da passanti e dalla polizia, erano state piazzate in un’ora di punta in luoghi particolarmente affollati e frequentati dalla nuova classe emergente come nella popolare Connaught Place, che il cuore commerciale della capitale. Ci sono evidenti similarità con la serie di attentatati multipli di luglio ad Amehdabad, in Gujarat, e di maggio a Jaipur, meta turistica del Rajasthan. Secondo gli investigatori sarebbero stati usati gli stessi materiali per fabbricare le bombe, la maggior parte nascoste nei cestini. Risulta quindi molto credibile la rivendicazione giunta anche questa volta attraverso un lunga e-mail degli Indian Mujahiddin, un nome sconosciuto fino a poco tempo fa e che sarebbe il braccio armato del SIMI, un movimenti islamico studentesco clandestino che fa proselitismo tra i giovani mussulmani indiani istruiti. E questa la vera novità della re-crudescenza del terrorismo in India che non avrebbe più l’impronta diretta dei servizi segreti pachistani, spesso accusati in passato dal governo indiano, ma arriverebbe dall’interno della vasta minoranza mussulmana che rappresenta il 20% circa della popolazione e che è sempre più animata dall’idea di una jihad globale e da sentimenti anti americani.
sabato 13 settembre 2008
Film italiano a Bollywood racconta di padroni e servitori
Su Apcom
L’anziano autista maltrattato dalla ricca e arrogante padrona che lo accusa di “puzzare”, il portinaio costretto a subire le umiliazioni quotidiane degli inquilini di un elegante palazzo di Mumbai e il giovane e ingenuo cameriere innamorato di una straniera. Sono questi i tre caratteri del film in hindi “Barah Aana” realizzato dalla produttrice indipendente Giulia Achilli insieme a Raj Yerasi e al regista Raja Menon. E’ uno dei rari esempi di una partecipazione italiana diretta nella produzione di un film in India, la patria della prolifica industria cinematografica di Bollywood.
La pellicola, che uscirà nelle sale indiane all’inizio del prossimo anno, traccia un quadro non molto lusinghiero della nuova società arricchita indiana e del suo rapporto con la servitù. E’ un tasto delicato questo per l’India, un paese dominato dal sistema castale e dove il divario tra benessere e povertà sta crescendo di pari passo con il boom economico. “Uno degli aspetti dell’India che più mi ha colpito come un pugno nello stomaco è di vedere come sono trattate le classi subalterne” spiega Achilli che ha definito “Barah Aana” come una sorta di “Riso Amaro” del neorealismo indiano. Da due anni a Mumbai, dove ha lavorato come consulente per favorire gli scambi tra società italiane e indiane nel campo cinematografico, è al suo secondo film come produttrice dopo “Onde” (2006) diretto da Francesco Fei.
“Barah Aana”, espressione in hindi che significa “truffato”, esce dal filone classico dei musical bollywoodiani per raccontare in chiave tragicomica le contraddizioni della moderna società indiana. “Ma non vuole essere una denuncia, è piuttosto una provocazione – spiega –.Vorrei che questo film faccia riflettere il pubblico indiano su come in molti casi le persone al servizio del ceto medio-alto siano calpestate nella loro dignità di lavoratori”
Nel cast figura anche l’attrice Violante Placido, la bella figlia di Michele Placido, che interpreta Kate, un’affascinante italiana che vive di espedienti a Mumbai e che non si fa scrupoli ad approfittare della generosità di un cameriere, il quale vede l’amicizia con la “straniera” un suo riscatto sociale. “Quando si trova in una situazione difficile – precisa – Kate si comporta esattamente come gli altri tre personaggi. Costretta dalle necessità, cerca di salvaguardare se stessa per istinto di sopravvivenza”.
La trama si sviluppa intorno alle vessazioni quotidiane subite da tre amici di diverse generazioni: Shukla, l’autista (Naseeruddin Shah, interprete del noto film “Monsoon Wedding” della regista Mira Nair), Yadav, il portinaio (Vijay Raaz, anche lui un personaggio di “Monsoon Wedding”) e Aman, il cameriere (Arjun Mathur). I tre condividono una stanzetta nella baraccopoli di Dharavi, la più grande di Mumbai e anche dell’Asia, che pullula della vita e dei colori dell’India autentica. Alla fine della giornata di lavoro si ritrovano su un’altura accanto alla carcassa di un camion da cui si vedono le luci dei grattacieli dove abitano i ricchi, coloro che “si comprano le macchine da 200 mila rupie e non hanno 5000 rupie per salvare la vita di un bambino” come si sfoga una sera Yadav, il personaggio centrale del film, che spinto dalle circostanze, precipita in una criminalità inaspettata e non pianificata, coinvolgendo anche i due amici. Aman ha bisogno di soldi per fare colpo sulla sua bella straniera, mentre l’anziano Shukla vuole vendicarsi delle umiliazioni subite dalla padrona, la signora Mehta che non lo ha mai chiamato per nome, ma sempre solo “driver”. Ma proprio lui è l’unico che non ha nulla da perdere perché è “un morto vivente”, uno dei tanti poveri immigrati nelle metropoli indiane che quando lasciano il villaggio di origine vengono dichiarati morti dai familiari che si impossessano così dei loro beni e dell’eredità.
L’anziano autista maltrattato dalla ricca e arrogante padrona che lo accusa di “puzzare”, il portinaio costretto a subire le umiliazioni quotidiane degli inquilini di un elegante palazzo di Mumbai e il giovane e ingenuo cameriere innamorato di una straniera. Sono questi i tre caratteri del film in hindi “Barah Aana” realizzato dalla produttrice indipendente Giulia Achilli insieme a Raj Yerasi e al regista Raja Menon. E’ uno dei rari esempi di una partecipazione italiana diretta nella produzione di un film in India, la patria della prolifica industria cinematografica di Bollywood.
La pellicola, che uscirà nelle sale indiane all’inizio del prossimo anno, traccia un quadro non molto lusinghiero della nuova società arricchita indiana e del suo rapporto con la servitù. E’ un tasto delicato questo per l’India, un paese dominato dal sistema castale e dove il divario tra benessere e povertà sta crescendo di pari passo con il boom economico. “Uno degli aspetti dell’India che più mi ha colpito come un pugno nello stomaco è di vedere come sono trattate le classi subalterne” spiega Achilli che ha definito “Barah Aana” come una sorta di “Riso Amaro” del neorealismo indiano. Da due anni a Mumbai, dove ha lavorato come consulente per favorire gli scambi tra società italiane e indiane nel campo cinematografico, è al suo secondo film come produttrice dopo “Onde” (2006) diretto da Francesco Fei.
“Barah Aana”, espressione in hindi che significa “truffato”, esce dal filone classico dei musical bollywoodiani per raccontare in chiave tragicomica le contraddizioni della moderna società indiana. “Ma non vuole essere una denuncia, è piuttosto una provocazione – spiega –.Vorrei che questo film faccia riflettere il pubblico indiano su come in molti casi le persone al servizio del ceto medio-alto siano calpestate nella loro dignità di lavoratori”
Nel cast figura anche l’attrice Violante Placido, la bella figlia di Michele Placido, che interpreta Kate, un’affascinante italiana che vive di espedienti a Mumbai e che non si fa scrupoli ad approfittare della generosità di un cameriere, il quale vede l’amicizia con la “straniera” un suo riscatto sociale. “Quando si trova in una situazione difficile – precisa – Kate si comporta esattamente come gli altri tre personaggi. Costretta dalle necessità, cerca di salvaguardare se stessa per istinto di sopravvivenza”.
La trama si sviluppa intorno alle vessazioni quotidiane subite da tre amici di diverse generazioni: Shukla, l’autista (Naseeruddin Shah, interprete del noto film “Monsoon Wedding” della regista Mira Nair), Yadav, il portinaio (Vijay Raaz, anche lui un personaggio di “Monsoon Wedding”) e Aman, il cameriere (Arjun Mathur). I tre condividono una stanzetta nella baraccopoli di Dharavi, la più grande di Mumbai e anche dell’Asia, che pullula della vita e dei colori dell’India autentica. Alla fine della giornata di lavoro si ritrovano su un’altura accanto alla carcassa di un camion da cui si vedono le luci dei grattacieli dove abitano i ricchi, coloro che “si comprano le macchine da 200 mila rupie e non hanno 5000 rupie per salvare la vita di un bambino” come si sfoga una sera Yadav, il personaggio centrale del film, che spinto dalle circostanze, precipita in una criminalità inaspettata e non pianificata, coinvolgendo anche i due amici. Aman ha bisogno di soldi per fare colpo sulla sua bella straniera, mentre l’anziano Shukla vuole vendicarsi delle umiliazioni subite dalla padrona, la signora Mehta che non lo ha mai chiamato per nome, ma sempre solo “driver”. Ma proprio lui è l’unico che non ha nulla da perdere perché è “un morto vivente”, uno dei tanti poveri immigrati nelle metropoli indiane che quando lasciano il villaggio di origine vengono dichiarati morti dai familiari che si impossessano così dei loro beni e dell’eredità.
Attentati a Delhi, Indian Mujahiddin rivendica
Su Apcom
Hanno scelto alcuni dei più popolari mercati di Nuova Delhi i sospetti attentatori che verso le 6 del pomeriggio ora locale hanno fatto esplodere cinque bombe nel giro di 45 minuti. Altri ordigni esplosivi sarebbero stati trovati inesplosi nei pressi del monumentale arco di India Gate. Gli attentati a catena avrebbero causato la morte di 10 persone, secondo un bilancio che è ancora parziale e che potrebbe aumentare con il passare delle ore. Le bombe sarebbero state di bassa intensità, ma i luoghi degli attentati erano molto affollati come spesso accade durante il tardo pomeriggio del sabato. Sarebbero almeno 70 i feriti. Le esplosioni sono avvenute nella centralissima Connaught Place, la grande piazza circolare al cui centro sorge un giardino pubblico chiamato Central Park dove l’ordigno sarebbe stato piazzato in un cestino della spazzatura, nella vicina Barakamba Road e nel popolare mercato di Karol Bagh. Due bombe in rapida successione avrebbero colpito poi il rione di Greater Kailash I, uno dei quartieri residenziali della classe medio-alta. Sarebbero stati utilizzati degli scooter e delle biciclette, secondo una tecnica già sperimentata in passato.
A rivendicare la strage con una e-mail a giornali e televisioni è il gruppo estremista Indian Mujahiddin, un nome sconosciuto fino a poco tempo fa, ma che avrebbe “firmato” anche l’ultima catena di attentati terroristici che lo scorso 26 luglio ha colpito Ahmedabad, capoluogo del Gujarat, dove sono morte 50 persone. Lo stesso gruppo sarebbe stato responsabile anche della strage a Jaipur, la “città rosa” del Rajasthan lo scorso 13 maggio.
La polizia indiana era risalita agli autori delle bombe in Gujarat e fa poco aveva arrestato numerosi sospetti in diverse parti dell’India.
Nell’ultima e-mail l’organizzazione estremista aveva minacciato di colpire con nuovi attentati le metropoli indiane. Secondo gli investigatori indiani Indian Mujahiddin sarebbe il “braccio armato” del Simi, Student Islamic Movement of India, un gruppo clandestino che potrebbe avere legami con altre organizzazioni islamiche attive in Kashmir e in Pakistan.
Hanno scelto alcuni dei più popolari mercati di Nuova Delhi i sospetti attentatori che verso le 6 del pomeriggio ora locale hanno fatto esplodere cinque bombe nel giro di 45 minuti. Altri ordigni esplosivi sarebbero stati trovati inesplosi nei pressi del monumentale arco di India Gate. Gli attentati a catena avrebbero causato la morte di 10 persone, secondo un bilancio che è ancora parziale e che potrebbe aumentare con il passare delle ore. Le bombe sarebbero state di bassa intensità, ma i luoghi degli attentati erano molto affollati come spesso accade durante il tardo pomeriggio del sabato. Sarebbero almeno 70 i feriti. Le esplosioni sono avvenute nella centralissima Connaught Place, la grande piazza circolare al cui centro sorge un giardino pubblico chiamato Central Park dove l’ordigno sarebbe stato piazzato in un cestino della spazzatura, nella vicina Barakamba Road e nel popolare mercato di Karol Bagh. Due bombe in rapida successione avrebbero colpito poi il rione di Greater Kailash I, uno dei quartieri residenziali della classe medio-alta. Sarebbero stati utilizzati degli scooter e delle biciclette, secondo una tecnica già sperimentata in passato.
A rivendicare la strage con una e-mail a giornali e televisioni è il gruppo estremista Indian Mujahiddin, un nome sconosciuto fino a poco tempo fa, ma che avrebbe “firmato” anche l’ultima catena di attentati terroristici che lo scorso 26 luglio ha colpito Ahmedabad, capoluogo del Gujarat, dove sono morte 50 persone. Lo stesso gruppo sarebbe stato responsabile anche della strage a Jaipur, la “città rosa” del Rajasthan lo scorso 13 maggio.
La polizia indiana era risalita agli autori delle bombe in Gujarat e fa poco aveva arrestato numerosi sospetti in diverse parti dell’India.
Nell’ultima e-mail l’organizzazione estremista aveva minacciato di colpire con nuovi attentati le metropoli indiane. Secondo gli investigatori indiani Indian Mujahiddin sarebbe il “braccio armato” del Simi, Student Islamic Movement of India, un gruppo clandestino che potrebbe avere legami con altre organizzazioni islamiche attive in Kashmir e in Pakistan.
martedì 9 settembre 2008
Il neo presidente Zardari avvia la distensione con Afghanistan
Su Radio Vaticana
E’ iniziato con la distensione dei rapporti tra Pakistan e Afghanistan il primo giorno di presidenza di Asif Ali Zardari. Subito dopo aver prestato giuramento come 14esimo capo dello stato, il vedovo di Benazir Bhutto in una conferenza stampa congiunta con Hamid Karzai ha promesso di lavorare insieme per sconfiggere il male comune del terrorismo islamico. Ma anche precisato che non intende tollerare alcuna vittima civile in riferimento a recenti raid della Nato diretti a presunte basi dei militanti islamici, ma che hanno fatto strage di donne e bambini.
Durante la conferenza stampa, che è stata anche l’occasione per enunciare il suo programma, Zardari ha annunciato che ci potrebbero presto novità positive sull’annosa questione del Kashmir e che il canale parallelo di negoziati con l’India continua anche con il consenso di Nawaz Sharif, l’alleato che ha abbandonato la coalizione con il partito Popolare per disaccordo sulla riabilitazione dei giudici della Corte Suprema.
Il neo presidente ha anche precisato di non volere nessuna vendetta politica contro il predecessore Musharraf e di rimettersi alla volontà del parlamento qualora decida di ridurre i poteri presidenziali.
E’ iniziato con la distensione dei rapporti tra Pakistan e Afghanistan il primo giorno di presidenza di Asif Ali Zardari. Subito dopo aver prestato giuramento come 14esimo capo dello stato, il vedovo di Benazir Bhutto in una conferenza stampa congiunta con Hamid Karzai ha promesso di lavorare insieme per sconfiggere il male comune del terrorismo islamico. Ma anche precisato che non intende tollerare alcuna vittima civile in riferimento a recenti raid della Nato diretti a presunte basi dei militanti islamici, ma che hanno fatto strage di donne e bambini.
Durante la conferenza stampa, che è stata anche l’occasione per enunciare il suo programma, Zardari ha annunciato che ci potrebbero presto novità positive sull’annosa questione del Kashmir e che il canale parallelo di negoziati con l’India continua anche con il consenso di Nawaz Sharif, l’alleato che ha abbandonato la coalizione con il partito Popolare per disaccordo sulla riabilitazione dei giudici della Corte Suprema.
Il neo presidente ha anche precisato di non volere nessuna vendetta politica contro il predecessore Musharraf e di rimettersi alla volontà del parlamento qualora decida di ridurre i poteri presidenziali.
Zardari presta giuramento, mentre continuano raid americani in Waziristan
In onda su Radio Svizzera Italiana
Sotto gli occhi dei tre figli e salutato dal grido lunga vita a Benazir Bhutto, Asif Ali Zardari ha prestato oggi giuramento come 14esimo presidente della repubblica pachistana e come primo capo di stato democraticamente eletto dopo 9 anni di regime di Pervez Musharraf. Il controverso erede del Partito Popolare Pachistano, eletto sabato con una schiacciante maggioranza, assume da oggi l’arduo compito di guidare un paese dove incombe la duplice minaccia di una grave crisi economica e della recrudescenza dell’integralismo islamico. Zardari, che ha trascorso 11 anni in carcere per corruzione e anche omicidio, eredita da Musharraf una situazione ancora più incandescente. Negli ultimi dieci giorni ci sono state sette incursioni delle forze americane al confine afghano dirette contro sospette basi di talebani e militanti arabi di Al Qaeda. L’ultimo attacco condotto con un aereo spia americano, è di ieri nel Nord del Waziristan dove un missile avrebbe ucciso una trentina di persone.
E’ significativo che alla cerimonia di giuramento tra gli invitati c’era anche il presidente afgano Hamid Karzai, che più volte in passato aveva criticato Islamabad di non fare abbastanza per fermare gli attacchi dei ribelli islamici che dalle regioni tribali nel nord ovest si infiltrano in Afghanistan. Potrebbe essere il segno di una nuova era di distensione con Kabul promossa da Zardari che illustrerà il suo programma in una conferenza stampa.
Sotto gli occhi dei tre figli e salutato dal grido lunga vita a Benazir Bhutto, Asif Ali Zardari ha prestato oggi giuramento come 14esimo presidente della repubblica pachistana e come primo capo di stato democraticamente eletto dopo 9 anni di regime di Pervez Musharraf. Il controverso erede del Partito Popolare Pachistano, eletto sabato con una schiacciante maggioranza, assume da oggi l’arduo compito di guidare un paese dove incombe la duplice minaccia di una grave crisi economica e della recrudescenza dell’integralismo islamico. Zardari, che ha trascorso 11 anni in carcere per corruzione e anche omicidio, eredita da Musharraf una situazione ancora più incandescente. Negli ultimi dieci giorni ci sono state sette incursioni delle forze americane al confine afghano dirette contro sospette basi di talebani e militanti arabi di Al Qaeda. L’ultimo attacco condotto con un aereo spia americano, è di ieri nel Nord del Waziristan dove un missile avrebbe ucciso una trentina di persone.
E’ significativo che alla cerimonia di giuramento tra gli invitati c’era anche il presidente afgano Hamid Karzai, che più volte in passato aveva criticato Islamabad di non fare abbastanza per fermare gli attacchi dei ribelli islamici che dalle regioni tribali nel nord ovest si infiltrano in Afghanistan. Potrebbe essere il segno di una nuova era di distensione con Kabul promossa da Zardari che illustrerà il suo programma in una conferenza stampa.
venerdì 5 settembre 2008
Zardari sarà nuovo presidente Pakistan? Oggi si vota
Su Radio Svizzera Italiana
Molto probabilmente sarà Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto e co presidente del partito Popolare pachistano, a prendere il posto di Pervez Musharraf dopo le sue dimissioni del 18 agosto. Il parlamento a camere riunite e le quattro assemblee di Lahore, Karachi, Quetta e Peshavar hanno iniziato le operazioni di voto. Gli altri due candidati in lizza sono un ex giudice proposto dalla Lega pachistana mussulmana di Nawaz Sharif, e un sostenitore di Musharraf. Il partito popolare pachistano punta a ottenere 400 voti su un totale di settecento.
Pochi avrebbero immaginato solo un anno fa che il controverso Zardari, ex play boy ed ex giocatore di Polo, conosciuto come Mister 10 per cento per le accuse di corruzione, sarebbe diventato un candidato alla presidenza. Se sarà eletto erediterà una situazione estremamente delicata. Al confine con l’Afghanistan la tensione è in aumento dopo una serie di azioni militari americane che hanno violato la sovranità territoriale pachistana e fatto strage di civili. Anche ieri alcuni missili sparati da un aereo spia americano avrebbero ucciso donne e bambini nel nord del Waziristan. Sembra che Washington voglia intensificare la sua battaglia contro telebani e militanti di Al Qaeda nascosti nelle zone tribali pachistane. Zardari, orfano dell’alleato Sharif che ha abbandonato la coalizione, si troverà a guidare inoltre un paese impoverito da un’inflazione record e lacerato dagli attacchi degli integralisti islamici, che solo pochi giorni fa hanno attentato alla vita del premier Gilani.
Molto probabilmente sarà Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto e co presidente del partito Popolare pachistano, a prendere il posto di Pervez Musharraf dopo le sue dimissioni del 18 agosto. Il parlamento a camere riunite e le quattro assemblee di Lahore, Karachi, Quetta e Peshavar hanno iniziato le operazioni di voto. Gli altri due candidati in lizza sono un ex giudice proposto dalla Lega pachistana mussulmana di Nawaz Sharif, e un sostenitore di Musharraf. Il partito popolare pachistano punta a ottenere 400 voti su un totale di settecento.
Pochi avrebbero immaginato solo un anno fa che il controverso Zardari, ex play boy ed ex giocatore di Polo, conosciuto come Mister 10 per cento per le accuse di corruzione, sarebbe diventato un candidato alla presidenza. Se sarà eletto erediterà una situazione estremamente delicata. Al confine con l’Afghanistan la tensione è in aumento dopo una serie di azioni militari americane che hanno violato la sovranità territoriale pachistana e fatto strage di civili. Anche ieri alcuni missili sparati da un aereo spia americano avrebbero ucciso donne e bambini nel nord del Waziristan. Sembra che Washington voglia intensificare la sua battaglia contro telebani e militanti di Al Qaeda nascosti nelle zone tribali pachistane. Zardari, orfano dell’alleato Sharif che ha abbandonato la coalizione, si troverà a guidare inoltre un paese impoverito da un’inflazione record e lacerato dagli attacchi degli integralisti islamici, che solo pochi giorni fa hanno attentato alla vita del premier Gilani.
Singur, il nipote del Mahatma tenta di salvare la fabbrica della Nano
Su Apcom
Sarà il più giovane dei nipoti del Mahatma Gandhi a cercare di salvare la fabbrica di Tata Motors a Singur, nei pressi di Calcutta, dove si sta producendo la “mini car” Nano. Il governatore dello stato del Bengala Occidentale, Gopal Krishna Gandhi, è stato incaricato a fare da “paciere” tra il governo locale che ha confiscato le terre e il fronte pro contadino guidato da Mamata Banerjee, la battagliera leader del Trinamul Congress che ha costretto il colosso dell’auto a sospendere i lavori di costruzione del nuovo stabilimento. Da circa due settimane migliaia di dimostranti “picchettano” i cancelli ormai chiusi dell’impianto per chiedere la restituzione di parte delle terre espropriate, esattamente 400 acri, che non sarebbero utilizzati per la produzione della mini utilitaria, ma sono riservati a servizi e aziende dell’indotto. Il presidente del Bengala Occidentale, Buddhadeb Bhattacharjee, leader dei comunisti marxisti indiani - che sono al potere da quasi 30 anni nello stato dove sorge Calcutta - non intende però cedere alle pressioni, ma nello stesso tempo non vuole nemmeno rimediare una “figuraccia” con Ratan Tata che due anni fa decise di fabbricare la Nano in Bengala, uno degli stati indiani più poveri e anche industrialmente arretrato rispetto ad altri, come il Maharashtra, dove sorge il distretto dell’auto di Pune.
Se l’impianto della Nano, costato 350 milioni di dollari, sarà dislocato altrove (sono già arrivate molte proposte), sarà una debacle per la politica industriale dello stato che difficilmente riuscirà ad attirare altri investimenti indiani o stranieri. E’ ancora aperta la ferita di Nandigram, dove doveva sorgere una Zona Economica Speciale con un polo chimico indonesiano, poi cancellata per via delle proteste contadine e della sanguinosa repressione della polizia e dei volontari del partito comunista marxista. Ma la decisione della Tata di abbandonare Singur avrebbe delle profonde ripercussioni anche sull’occupazione locale. Dopo aver appreso la notizia della sospensione dei lavori a Singur, un ex contadino, uno dei tanti che aveva venduto la terra, si è suicidato con dei pesticidi per la disperazione di vedere i suoi tre figli disoccupati.
Negli ultimi tre giorni ci sono state dimostrazioni a Calcutta a favore della fabbrica Tata. Sembra anche che la stessa Banerjee, per paura di un boomerang politico, abbia ammorbidito la sua posizione e ci potrebbero essere degli spiragli nella trattativa con il governo che sarebbe disponibile a offrire risarcimenti addizionali per i proprietari espropriati.
Se il governatore Gandhi non riuscirà invece a trovare una soluzione, Tata darà di sicuro addio a Singur. Il colosso industriale avrebbe già pronto un piano alternativo, tanto che ieri ad un convegno a Nuova Delhi, il presidente Ratan Tata ha detto che “farà il possibile” per rispettare l’appuntamento di ottobre con l’atteso lancio sul mercato della Nano.
Sarà il più giovane dei nipoti del Mahatma Gandhi a cercare di salvare la fabbrica di Tata Motors a Singur, nei pressi di Calcutta, dove si sta producendo la “mini car” Nano. Il governatore dello stato del Bengala Occidentale, Gopal Krishna Gandhi, è stato incaricato a fare da “paciere” tra il governo locale che ha confiscato le terre e il fronte pro contadino guidato da Mamata Banerjee, la battagliera leader del Trinamul Congress che ha costretto il colosso dell’auto a sospendere i lavori di costruzione del nuovo stabilimento. Da circa due settimane migliaia di dimostranti “picchettano” i cancelli ormai chiusi dell’impianto per chiedere la restituzione di parte delle terre espropriate, esattamente 400 acri, che non sarebbero utilizzati per la produzione della mini utilitaria, ma sono riservati a servizi e aziende dell’indotto. Il presidente del Bengala Occidentale, Buddhadeb Bhattacharjee, leader dei comunisti marxisti indiani - che sono al potere da quasi 30 anni nello stato dove sorge Calcutta - non intende però cedere alle pressioni, ma nello stesso tempo non vuole nemmeno rimediare una “figuraccia” con Ratan Tata che due anni fa decise di fabbricare la Nano in Bengala, uno degli stati indiani più poveri e anche industrialmente arretrato rispetto ad altri, come il Maharashtra, dove sorge il distretto dell’auto di Pune.
Se l’impianto della Nano, costato 350 milioni di dollari, sarà dislocato altrove (sono già arrivate molte proposte), sarà una debacle per la politica industriale dello stato che difficilmente riuscirà ad attirare altri investimenti indiani o stranieri. E’ ancora aperta la ferita di Nandigram, dove doveva sorgere una Zona Economica Speciale con un polo chimico indonesiano, poi cancellata per via delle proteste contadine e della sanguinosa repressione della polizia e dei volontari del partito comunista marxista. Ma la decisione della Tata di abbandonare Singur avrebbe delle profonde ripercussioni anche sull’occupazione locale. Dopo aver appreso la notizia della sospensione dei lavori a Singur, un ex contadino, uno dei tanti che aveva venduto la terra, si è suicidato con dei pesticidi per la disperazione di vedere i suoi tre figli disoccupati.
Negli ultimi tre giorni ci sono state dimostrazioni a Calcutta a favore della fabbrica Tata. Sembra anche che la stessa Banerjee, per paura di un boomerang politico, abbia ammorbidito la sua posizione e ci potrebbero essere degli spiragli nella trattativa con il governo che sarebbe disponibile a offrire risarcimenti addizionali per i proprietari espropriati.
Se il governatore Gandhi non riuscirà invece a trovare una soluzione, Tata darà di sicuro addio a Singur. Il colosso industriale avrebbe già pronto un piano alternativo, tanto che ieri ad un convegno a Nuova Delhi, il presidente Ratan Tata ha detto che “farà il possibile” per rispettare l’appuntamento di ottobre con l’atteso lancio sul mercato della Nano.
giovedì 4 settembre 2008
Pakistan, démarche diplomatica contro raid Usa nel sud del Waziristan
In onda su Radio Svizzera Italiana
Mentre Asif Ali Zardari, il controverso vedovo di Benazir Bhutto, si avvia domani a diventare il primo presidente della nuova era del dopo Musharraf, riemergono i vecchi attriti con l’alleato americano sulla lotta al terrorismo islamico in corso sul poroso confine afgano. Il governo di Islamabad ha reagito con isolita durezza all’incursione delle truppe statunitensi nel sud del Waziristan che avrebbe provocato la morte di una ventina di civili. La Casa Bianca ha confermato il raid, compiuto con forze speciali sbarcate da elicotteri dall’Afghanistan, e diretto a una non precisata base di militanti di Al Qaeda. La reazione del ministro degli esteri Shah Mahmud Qureshi è stata durissima. “Non ci risulta che tra le vittime ci siano dei sospetti terroristi, ci sono solo donne e bambini” ha detto ieri davanti al parlamento. Mercoledì sera è stata convocata anche l’ambasciatrice americana Anne Paterson per una demarche ufficiale. Ci sarebbe stato anche un altro attacco, giovedì, nel nord del Waziristan, condotto con un missile che ha distrutto una casa e ucciso 4 sospetti militanti.
Il primo ministro Yusuf Raza Gilani, scampato a un attentato sempre mercoledì grazie a servizi segreti che avevano saputo che il suo convoglio sarebbe stato attaccato, ha detto che il Pakistan non permetterà ingerenze straniere nelle zone tribali del confine nord occidentali dove l’esercito pachistano continua la sua offensiva contro gli integralisti islamici nonostante l’inizio del Ramadan.
Mentre Asif Ali Zardari, il controverso vedovo di Benazir Bhutto, si avvia domani a diventare il primo presidente della nuova era del dopo Musharraf, riemergono i vecchi attriti con l’alleato americano sulla lotta al terrorismo islamico in corso sul poroso confine afgano. Il governo di Islamabad ha reagito con isolita durezza all’incursione delle truppe statunitensi nel sud del Waziristan che avrebbe provocato la morte di una ventina di civili. La Casa Bianca ha confermato il raid, compiuto con forze speciali sbarcate da elicotteri dall’Afghanistan, e diretto a una non precisata base di militanti di Al Qaeda. La reazione del ministro degli esteri Shah Mahmud Qureshi è stata durissima. “Non ci risulta che tra le vittime ci siano dei sospetti terroristi, ci sono solo donne e bambini” ha detto ieri davanti al parlamento. Mercoledì sera è stata convocata anche l’ambasciatrice americana Anne Paterson per una demarche ufficiale. Ci sarebbe stato anche un altro attacco, giovedì, nel nord del Waziristan, condotto con un missile che ha distrutto una casa e ucciso 4 sospetti militanti.
Il primo ministro Yusuf Raza Gilani, scampato a un attentato sempre mercoledì grazie a servizi segreti che avevano saputo che il suo convoglio sarebbe stato attaccato, ha detto che il Pakistan non permetterà ingerenze straniere nelle zone tribali del confine nord occidentali dove l’esercito pachistano continua la sua offensiva contro gli integralisti islamici nonostante l’inizio del Ramadan.
Marchionne/Fiat “In India puntiamo a quota di mercato a due cifre”
Su Apcom
La Fiat punta a una quota di mercato di almeno il 10% in India, un paese che è tra i più promettenti per il settore automobilistico insieme a Brasile, Russia e Cina. “Siamo ritornati in India nel 2004 e da allora abbiamo cercato di ricostruire il marchio attraverso l’alleanza con Tata – ha detto Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, in un intervento al convegno annuale della Siam, la società dei costruttori automobilistici indiani – .Terminato questo periodo di transizione, la nostra speranza è di riuscire a conquistare una quota di mercato a doppia cifra”. Nei prossimi mesi dal nuovo stabilimento di Ranjangaon, nel distretto industriale di Pune, uscirà la Linea, la berlina media che è il primo prodotto comune della joint venture italo-indiana siglata un anno fa.
Il mercato indiano dell’auto è cresciuto negli ultimi cinque anni a un ritmo del 15-27% secondo quanto ha detto Ravi Kant, presidente Siam e direttore di Tata Motors, ma dovrà in futuro affrontare “numerose sfide che non hanno precedenti”. La produzione manifatturiera indiana ha già mostrato pesanti segni di un rallentamento sull’onda di una contrazione della domanda di generi di consumo causata da un’inflazione record del 12%, del costo del denaro e del caro benzina. Il rincaro delle materie prime, dall’acciaio alla gomma, “ha significative ripercussioni sui vari segmenti dell’industria dell’auto” ha aggiunto Kant che ha anche fatto appello al governo perche “prenda misure correttive”.
Dal convegno sono emersi anche quali saranno i trend futuri del settore che sarà sempre più concentrato sulle “small car”. Con i vincoli del caropetrolio e le esigenze di mobilità “non ci sono altre opzioni” che produrre auto più piccole, ha sostenuto Marchionne. Anche negli Stati Uniti i consumatori preferiscono ormai le “compatte”. Ma ovviamente non c’è un modello universale di “mini car” valido per ogni Paese. La Tata Nano, l’auto da 2500 dollari che dovrebbe essere lanciata sul mercato a ottobre (se si sbloccherà la crisi dello stabilimento di Singur, in Bengala Occidentale) è destinata a essere la “prima” auto delle famiglie indiane che ora vanno in scooter. La Fiat 500, introdotta da poco anche in India, è invece un’auto ad alto contenuto tecnologico per un consumatore maturo “che magari ha una Ferrari in garage” come ha scherzato Ratan Tata seduto di fianco a Marchionne nella tavola rotonda.
L’altro tema dominante per le industrie dell’auto è la riduzione di emissioni inquinanti attraverso l’uso di etanolo, energia elettrica o tecnologie ibride. Il numero uno del Lingotto ha ricordato l’obiettivo dichiarato da Fiat di arrivare nel 2012 a un motore che abbia il più basso livello di emissioni di CO2. Il rispetto dell’ambiente “è ormai una questione di responsabilità sociale verso la collettività” ha affermato Marchionne guadagnandosi l’applauso della platea.
mercoledì 3 settembre 2008
Fiat/Marchionne: “India grande opportunità di sviluppo”
Su Apcom
“L’India rappresenta oggi la più grande opportunità di sviluppo e anche una base importante per l’esportazione”. A Nuova Delhi l’amministratore delegato Sergio Marchionne ritrova l’ottimismo dopo le delusioni del mercato italiano. L’accordo di joint venture con Tata Motors siglato un anno fa ha permesso alla casa automobilistica torinese di ritornare a tutto campo sul mercato indiano dopo un lungo periodo di crisi. Il primo risultato concreto dell’alleanza sarà la Fiat Linea, la berlina media, già prodotta in Brasile e Turchia, e che è anche il primo prodotto a uscire dallo stabilimento comune di Ranjangaon, nei pressi di Pune, nello stato del Maharastra, realizzato grazie a un investimento di 650 milioni di euro. La capacità della nuova fabbrica, “completata all’85%”, è di oltre 300 mila veicoli all’anno. “E’ il primo passo di una relazione a lungo termine con Tata” ha spiegato Marchionne che stasera ha partecipato ad una presentazione “informale” della nuova vettura all’ambasciata italiana di Nuova Delhi. Il lancio ufficiale è previsto per dicembre, mentre per la Grande Punto, che uscirà sempre dalle catene di montaggio a Ranjangaon, bisognerà attendere il primo trimestre del prossimo anno.
Il numero uno di Fiat, nel suo tradizionale maglioncino blù nonostante la grande calura, ha anche parlato di una futura espansione dell’alleanza indiana ai veicoli commerciali. “Stiamo discutendo come poter organizzare la nostra collaborazione per la produzione di camion” ha aggiunto. Iveco era già presente in India con un’intesa con Ashok Leyland che è terminata a luglio. Domani Marchionne parteciperà insieme a Ratan Tata ad una tavola rotonda organizzata dalla Siam (Society of Indian Automobile Manufacturers), la società dei costruttori automobilistici indiani, nell’ambito del suo convegno annuale.
“L’India rappresenta oggi la più grande opportunità di sviluppo e anche una base importante per l’esportazione”. A Nuova Delhi l’amministratore delegato Sergio Marchionne ritrova l’ottimismo dopo le delusioni del mercato italiano. L’accordo di joint venture con Tata Motors siglato un anno fa ha permesso alla casa automobilistica torinese di ritornare a tutto campo sul mercato indiano dopo un lungo periodo di crisi. Il primo risultato concreto dell’alleanza sarà la Fiat Linea, la berlina media, già prodotta in Brasile e Turchia, e che è anche il primo prodotto a uscire dallo stabilimento comune di Ranjangaon, nei pressi di Pune, nello stato del Maharastra, realizzato grazie a un investimento di 650 milioni di euro. La capacità della nuova fabbrica, “completata all’85%”, è di oltre 300 mila veicoli all’anno. “E’ il primo passo di una relazione a lungo termine con Tata” ha spiegato Marchionne che stasera ha partecipato ad una presentazione “informale” della nuova vettura all’ambasciata italiana di Nuova Delhi. Il lancio ufficiale è previsto per dicembre, mentre per la Grande Punto, che uscirà sempre dalle catene di montaggio a Ranjangaon, bisognerà attendere il primo trimestre del prossimo anno.
Il numero uno di Fiat, nel suo tradizionale maglioncino blù nonostante la grande calura, ha anche parlato di una futura espansione dell’alleanza indiana ai veicoli commerciali. “Stiamo discutendo come poter organizzare la nostra collaborazione per la produzione di camion” ha aggiunto. Iveco era già presente in India con un’intesa con Ashok Leyland che è terminata a luglio. Domani Marchionne parteciperà insieme a Ratan Tata ad una tavola rotonda organizzata dalla Siam (Society of Indian Automobile Manufacturers), la società dei costruttori automobilistici indiani, nell’ambito del suo convegno annuale.
Mamata Banerjee, la tigre del Bengala contro la Tata Nano
Su Apcom
I suoi seguaci la chiamano con l’affettuoso nomignolo di “Didi”, sorella maggiore, ma per tutti gli altri è conosciuta come la “tigre del Bengala” o la “pasionaria dei contadini”. Dopo scioperi della fame, blocchi stradali e picchetti fuori dai cancelli, Mamata Banerjee è riuscita a piegare il colosso di Tata, il simbolo per eccellenza dell’industria indiana. Questa battagliera leader bengalese di 53 anni, dalle candide vesti e i capelli alla maschietta, ha vinto la sua battaglia contro le terre agricole espropriate per far posto alla fabbrica di Singur, dove tra due mesi dovevano uscire le prime Tata Nano, la ‘topolino’ destinata a realizzare i sogni di milioni di indiani e anche quelli del patron Ratan Tata, l’unico al mondo che sia riuscito a fabbricare una auto da 2500 dollari. Non è ancora detta l’ultima parola. In queste ore il longevo governo comunista marxista del Bengala Occidentale sta cercando di convincere i vertici di Tata Motors a non trasferire la fabbrica che era completata all’85%. La stessa Banerjee sembra sia stata colta di sorpresa dalla decisione, per altro annunciata del gruppo automobilistico, e sarebbe preoccupata per un’eventuale boomerang della sua protesta ad oltranza. “Non vogliamo far soffrire i lavoratori, non siamo contro l’industrializzazione dell’area, ma vogliamo solo che 400 acri di terra ritornino ai contadini” ha detto in un comizio lunedì sera.
La battaglia contro Singur, a circa 40 km a nord di Calcutta, era iniziata nel dicembre del 2006 quando il governo bengalese aveva iniziato a confiscare le terre fertili dietro un risarcimento che è stato considerato insufficiente dai proprietari.
La Banerjee, che si ispira ai principi gandhiani, aveva iniziato uno sciopero della fame durato 25 giorni e terminato solo dopo l’intervento dell’allora presidente indiano Abdul Kalam. Il suo partito, nato da una scissione dal Congresso, è il Trinamool (radici) di cui è l’unica esponente in parlamento. Alla guida di un variopinto fronte pro contadino, tra cui ci sarebbero anche i gruppi maoisti indiani, ha il suo nemico numero uno sono i comunisti marxisti di Buddhadeb Battarchejee, il Buddha rosso, fautore di un modello di industrializzazione ‘alla cinese’ favorito dall’afflusso di investimenti stranieri. Le ire della pasionaria Mamata si erano scagliate anche contro il progetto del gruppo indonesiano Salim per un polo chimico a Nandigram. Dopo sanguinose proteste, il progetto di “zona economica speciale” fu ritirato.
Adesso anche Singur potrebbe ritornare nelle mani dei contadini che per usare lo slogan preferito della Banerjee, hanno preferito l’”atta” (la farina) alla Tata. Per molti è la vittoria delle masse contadine contro lo strapotere delle multinazionali, ma per altri invece è la sconfitta di un’India che intende proiettarsi come futura potenza economica emergente.
I suoi seguaci la chiamano con l’affettuoso nomignolo di “Didi”, sorella maggiore, ma per tutti gli altri è conosciuta come la “tigre del Bengala” o la “pasionaria dei contadini”. Dopo scioperi della fame, blocchi stradali e picchetti fuori dai cancelli, Mamata Banerjee è riuscita a piegare il colosso di Tata, il simbolo per eccellenza dell’industria indiana. Questa battagliera leader bengalese di 53 anni, dalle candide vesti e i capelli alla maschietta, ha vinto la sua battaglia contro le terre agricole espropriate per far posto alla fabbrica di Singur, dove tra due mesi dovevano uscire le prime Tata Nano, la ‘topolino’ destinata a realizzare i sogni di milioni di indiani e anche quelli del patron Ratan Tata, l’unico al mondo che sia riuscito a fabbricare una auto da 2500 dollari. Non è ancora detta l’ultima parola. In queste ore il longevo governo comunista marxista del Bengala Occidentale sta cercando di convincere i vertici di Tata Motors a non trasferire la fabbrica che era completata all’85%. La stessa Banerjee sembra sia stata colta di sorpresa dalla decisione, per altro annunciata del gruppo automobilistico, e sarebbe preoccupata per un’eventuale boomerang della sua protesta ad oltranza. “Non vogliamo far soffrire i lavoratori, non siamo contro l’industrializzazione dell’area, ma vogliamo solo che 400 acri di terra ritornino ai contadini” ha detto in un comizio lunedì sera.
La battaglia contro Singur, a circa 40 km a nord di Calcutta, era iniziata nel dicembre del 2006 quando il governo bengalese aveva iniziato a confiscare le terre fertili dietro un risarcimento che è stato considerato insufficiente dai proprietari.
La Banerjee, che si ispira ai principi gandhiani, aveva iniziato uno sciopero della fame durato 25 giorni e terminato solo dopo l’intervento dell’allora presidente indiano Abdul Kalam. Il suo partito, nato da una scissione dal Congresso, è il Trinamool (radici) di cui è l’unica esponente in parlamento. Alla guida di un variopinto fronte pro contadino, tra cui ci sarebbero anche i gruppi maoisti indiani, ha il suo nemico numero uno sono i comunisti marxisti di Buddhadeb Battarchejee, il Buddha rosso, fautore di un modello di industrializzazione ‘alla cinese’ favorito dall’afflusso di investimenti stranieri. Le ire della pasionaria Mamata si erano scagliate anche contro il progetto del gruppo indonesiano Salim per un polo chimico a Nandigram. Dopo sanguinose proteste, il progetto di “zona economica speciale” fu ritirato.
Adesso anche Singur potrebbe ritornare nelle mani dei contadini che per usare lo slogan preferito della Banerjee, hanno preferito l’”atta” (la farina) alla Tata. Per molti è la vittoria delle masse contadine contro lo strapotere delle multinazionali, ma per altri invece è la sconfitta di un’India che intende proiettarsi come futura potenza economica emergente.
martedì 2 settembre 2008
Inondazioni Bihar , rischio di epidemie
In onda su Radio Svizzera Italiana
Anche se molto lentamente il livello dell’acqua si sta abbassando nei distretti alluvionati del Bihar, vicino al confine con il Nepal dove due settimane fa il fiume Kosi in piena per le piogge monsoniche è uscito dagli argini allagando una vasta e povera zone popolata da 3 milioni di abitanti. Ma la catastrofe rischia ora di aggravarsi a causa delle disperate condizioni di vita degli sfollati, circa mezzo milione, che sono ancora in attesa di aiuti o che sono ammassati nei campi di prima assistenza allestiti dalle autorità locali. Le precarie condizioni igieniche, soprattutto la mancanza di acqua potabile per bere e cucinare, hanno già causato l’insorgere di infezioni. Si temono epidemie a causa dell’acqua stagnante e dei pozzi contaminati. Ma a preoccupare di più è la lentezza e la disorganizzazione nella distribuzione dei soccorsi e soprattutto la mancanza di medici nei campi dove ogni giorno continuano ad arrivare nuovi sfollati in condizioni disperate. Intanto continuano anche le polemiche e gli scaricabarile sulle responsabilità del disastro che è iniziato lo scorso 18 agosto quando il fiume Saptakoshi, come viene chiamato in nepalese, ha rotto degli sbarramenti costruiti negli anni 50 in base ad un accordo bilaterale tra il Nepal e lo stato indiano del Bihar al quale spetta il controllo e la manutenzione degli argini insabbiati prima dell’inizio dei monsoni. Ma quest’anno nessuno è intervenuto a causa, secondo la spiegazione delle autorità indiane, del diniego di permessi da parte degli ex ribelli maoisti che sono ora al potere a Kathmandu.
Anche se molto lentamente il livello dell’acqua si sta abbassando nei distretti alluvionati del Bihar, vicino al confine con il Nepal dove due settimane fa il fiume Kosi in piena per le piogge monsoniche è uscito dagli argini allagando una vasta e povera zone popolata da 3 milioni di abitanti. Ma la catastrofe rischia ora di aggravarsi a causa delle disperate condizioni di vita degli sfollati, circa mezzo milione, che sono ancora in attesa di aiuti o che sono ammassati nei campi di prima assistenza allestiti dalle autorità locali. Le precarie condizioni igieniche, soprattutto la mancanza di acqua potabile per bere e cucinare, hanno già causato l’insorgere di infezioni. Si temono epidemie a causa dell’acqua stagnante e dei pozzi contaminati. Ma a preoccupare di più è la lentezza e la disorganizzazione nella distribuzione dei soccorsi e soprattutto la mancanza di medici nei campi dove ogni giorno continuano ad arrivare nuovi sfollati in condizioni disperate. Intanto continuano anche le polemiche e gli scaricabarile sulle responsabilità del disastro che è iniziato lo scorso 18 agosto quando il fiume Saptakoshi, come viene chiamato in nepalese, ha rotto degli sbarramenti costruiti negli anni 50 in base ad un accordo bilaterale tra il Nepal e lo stato indiano del Bihar al quale spetta il controllo e la manutenzione degli argini insabbiati prima dell’inizio dei monsoni. Ma quest’anno nessuno è intervenuto a causa, secondo la spiegazione delle autorità indiane, del diniego di permessi da parte degli ex ribelli maoisti che sono ora al potere a Kathmandu.
lunedì 1 settembre 2008
Orissa, appello vescovi mentre continuano le violenze contro i cristiani
Su Radio Vaticana Mentre la situazione nello stato dell’Orissa rimane tesa a causa di nuovi incidenti, i vescovi italiani sono intervenuti per condannare l’ondata di violenza contro la minoranza cristiana. In una nota diffusa ieri la presidenza della Cei, la Conferenza Episcopale italiana, si associa all'accorato appello formulato dal Santo Padre Benedetto XVI, condannando con fermezza ogni attacco alla vita umana ed esortando alla ricerca della concordia e della pace. I vescovi hanno inoltre deciso di indire per venerdì una giornata di preghiera e di digiuno.
Secondi un portavoce della CBCI, la Conferenza dei Vescovi cattolici in India, sarebbero 40 mila le persone rimaste senza tetto a causa di quello che è stato definito i regno del terrore in Orissa. Dopo gli ultimi scontri, il bilancio delle vittime è salito a 16, mentre secondo statistiche citate dalla CBCI sono state distrutte 4300 case, 50 chiese e cinque conventi nel distretto di Kandhamal, che e quello più colpito dall’esplosione di violenza seguito all’uccisione di un leader religioso indu lo scorso 23 agosto e di alcuni seguaci. La comunità cristiana era stata incolpata dell’omicidio nonostante le rivendicazione di gruppi maoisti attivi nello stato tribale dell’Orissa.
Secondi un portavoce della CBCI, la Conferenza dei Vescovi cattolici in India, sarebbero 40 mila le persone rimaste senza tetto a causa di quello che è stato definito i regno del terrore in Orissa. Dopo gli ultimi scontri, il bilancio delle vittime è salito a 16, mentre secondo statistiche citate dalla CBCI sono state distrutte 4300 case, 50 chiese e cinque conventi nel distretto di Kandhamal, che e quello più colpito dall’esplosione di violenza seguito all’uccisione di un leader religioso indu lo scorso 23 agosto e di alcuni seguaci. La comunità cristiana era stata incolpata dell’omicidio nonostante le rivendicazione di gruppi maoisti attivi nello stato tribale dell’Orissa.
Vogue India, il lusso dei ricchi pubblicizzato dai poveri
In onda su Radio Svizzera Italiana
Si sa che fin dai tempi dei maharaja l’India è un paese dalle mille contraddizioni dove estrema povertà e estrema ricchezza coesistono in un modo quasi naturale. Questo contrasto, oggi più stridente che mai, è diventato oggetto di una discutibile campagna pubblicitaria dell’edizione indiana di Vogue, lanciata lo scorso ottobre e dedicata alla nuova classe emergente. In uno speciale di 16 pagine intitolato “India in Style”, il famoso mensile patinato ha usato “gente di strada”, esattamente di Jodhpur, per promuovere costosissimi accessori e vestiti di marca. Si vede per esempio un contadino sdentato con un ombrello di Burberrys, una donna su uno scooter con tre passeggeri che espone una borsa ultimo modello di Hermes. Un'altra con dei sandali Miu Miu seduta davanti alla capanna fatta con letame essicato. “Solo con il costo di questi sandali potrebbe pagare un anno di scuola per suo figlio” scrive in un editoriale il Mail Today, uno dei pochi quotidiani indiani a criticare il servizio fotografico di Vogue India che è stato accusato di cattivo gusto anche in un articolo apparso sul New York Times. Secondo una recente statistica di Banca Mondiale, il 76 per cento della popolazione indiana vive con due dollari al giorno, ma l’India è considerata uno dei mercati più appetibili per l’industria del lusso. Certo prima di vendere la moda bisogna fabbricare i sogni. Ma di sicuro ci vorrà molto tempo prima di vedere la contadina del Rajasthan entrare in una boutique di Armani.
Si sa che fin dai tempi dei maharaja l’India è un paese dalle mille contraddizioni dove estrema povertà e estrema ricchezza coesistono in un modo quasi naturale. Questo contrasto, oggi più stridente che mai, è diventato oggetto di una discutibile campagna pubblicitaria dell’edizione indiana di Vogue, lanciata lo scorso ottobre e dedicata alla nuova classe emergente. In uno speciale di 16 pagine intitolato “India in Style”, il famoso mensile patinato ha usato “gente di strada”, esattamente di Jodhpur, per promuovere costosissimi accessori e vestiti di marca. Si vede per esempio un contadino sdentato con un ombrello di Burberrys, una donna su uno scooter con tre passeggeri che espone una borsa ultimo modello di Hermes. Un'altra con dei sandali Miu Miu seduta davanti alla capanna fatta con letame essicato. “Solo con il costo di questi sandali potrebbe pagare un anno di scuola per suo figlio” scrive in un editoriale il Mail Today, uno dei pochi quotidiani indiani a criticare il servizio fotografico di Vogue India che è stato accusato di cattivo gusto anche in un articolo apparso sul New York Times. Secondo una recente statistica di Banca Mondiale, il 76 per cento della popolazione indiana vive con due dollari al giorno, ma l’India è considerata uno dei mercati più appetibili per l’industria del lusso. Certo prima di vendere la moda bisogna fabbricare i sogni. Ma di sicuro ci vorrà molto tempo prima di vedere la contadina del Rajasthan entrare in una boutique di Armani.
Bihar, emergenza per 500 mila alluvionati
In onda su Radio Vaticana
A due settimane dallo straripamento di un fiume in Nepal, centinaia di migliaia di alluvionati sono in urgente bisogno di cibo e acqua pulita in Bihar, nel nord dell’India. L’intera parte settentrionale dello stato, lungo il confine nepalese, sarebbe completamente sommersa. Le inondazioni, causate dal fiume Kosi un affluente del Gange, hanno costretto alla fuga un milione e 200 mila persone. Le autorità stimano che 500 mila sopravissuti siano ancora intrappolati sui tetti delle loro case o aggrappati agli alberi in attesa dei soccorsi che vanno estremamente a rilento. Oltre 70 persone sono annegate o morte nel crollo delle case. Ma non è ancora chiaro il numero degli scomparsi.
In Bihar, uno dei stati più poveri dell’india, ma anche quello dall’amministrazione più corrotta, non è in grado di affrontare calamita naturali di questa entità. Mancano per esempio le imbarcazione adeguate per raggiungere i villaggi isolati e anche il personale per distribuire gli aiuti. Grazie all’interveneto dell’esercito sarebbero state evacuate finora 400 mila persone che hanno trovato rifugio in campi allestiti dalle autorità. Ma l’affollamento nelle tendopoli di fortuna e le precarie condizioni igieniche potrebbero far nascere il rischio di infezioni e epidemie.
A due settimane dallo straripamento di un fiume in Nepal, centinaia di migliaia di alluvionati sono in urgente bisogno di cibo e acqua pulita in Bihar, nel nord dell’India. L’intera parte settentrionale dello stato, lungo il confine nepalese, sarebbe completamente sommersa. Le inondazioni, causate dal fiume Kosi un affluente del Gange, hanno costretto alla fuga un milione e 200 mila persone. Le autorità stimano che 500 mila sopravissuti siano ancora intrappolati sui tetti delle loro case o aggrappati agli alberi in attesa dei soccorsi che vanno estremamente a rilento. Oltre 70 persone sono annegate o morte nel crollo delle case. Ma non è ancora chiaro il numero degli scomparsi.
In Bihar, uno dei stati più poveri dell’india, ma anche quello dall’amministrazione più corrotta, non è in grado di affrontare calamita naturali di questa entità. Mancano per esempio le imbarcazione adeguate per raggiungere i villaggi isolati e anche il personale per distribuire gli aiuti. Grazie all’interveneto dell’esercito sarebbero state evacuate finora 400 mila persone che hanno trovato rifugio in campi allestiti dalle autorità. Ma l’affollamento nelle tendopoli di fortuna e le precarie condizioni igieniche potrebbero far nascere il rischio di infezioni e epidemie.
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