Su Il Giornale
La prima vittima della nuova crisi di nervi tra India e Pakistan è stato come sempre il cricket. Un torneo, previsto a gennaio a Islamabad, è saltato lasciando a bocca asciutta milioni di sportivi. Le partite tra le due squadre nazionali erano riprese solo nel 2004 dopo un intervallo di 15 anni.
La strage di Mumbai, attribuita a elementi della jihad pachistana, sta causando un terremoto politico e diplomatico con scosse ondulatorie che si propagano anche a Washington. Se la tensione dovesse salire oltre la soglia di guardia, il Pakistan è pronto a dislocare le sue truppe dal confine occidentale aghano a quello orientale indiano o meglio kashmiro dove da quattro anni vige il cessate il fuoco. Se si dovesse realizzare questa ipotesi, significherebbe un indebolimento della lotta ai talebani e Al Qaeda condotta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati in Afghanistan e da qualche mese anche a cavallo del confine con l’uso di aerei droni della Cia. Per la nuova amministrazione entrante di Barack Obama sarebbe imperativo avere la coordinazione di India, Pakistan e Afghanistan per stabilizzare la regione e vincere la guerra contro i talebani. Un’escalation militare tra le due potenze nucleari, come quella disinnescata nel giugno del 2002, è uno scenario assolutamente da evitare per la Casa Bianca.
Mentre a Mumbai si contano ancora i morti, che sono scesi a 174 e monta la rabbia della piazza contro l’inefficienza del governo, l’India insiste sulla pista pachistana emersa dall’interrogatorio dell’unico attentatore sopravvissuto al blitz, Azam Amir Kasab e da altri indizi tra cui un telefonino satellitare con numeri di Karachi. Anche l’intelligence americana avrebbe confermato il coinvolgimento del gruppo islamico filo pachistano Lashkar-e-Taiba. Il governo di Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto assassinata dagli integralisti ha respinto le accuse e ha invitato New Delhi, che avrebbe già rafforzato la difesa aerea al confine, a “non reagire in modo eccessivo”. La sensazione è che gli sviluppi dei prossimi giorni “saranno cruciali per le relazioni tra i due Paesi”, come ha ammesso un funzionario pachistano.
Il governo di Manmohan Singh, che il prossimo anno va alle elezioni con la spada di Damocle di una recessione economica, ha più che mai bisogno di mostrare i muscoli sia sul fronte interno che esterno. Sotto pressione per le polemiche dei giornali e anche per l’opposizione del centro destra guidata dal Bjp, il Partito Popolare Indiano, oggi ha silurato il ministro degli interni Shrivaj Patil, la cui poltrona era già traballante dopo gli attentati a catena di settembre a New Delhi in cui era stato accusato di pensare più al suo guardaroba (era stato fotografato in tre cerimonie con tre abiti diversi) che alla sicurezza dei cittadini. E’ stato sostituito con Palaniappan Chidambaram, il brillante ministro delle finanze laureato ad Harvard, che fa parte del “dream team” del miracolo economico indiano. Con le sue dimissioni Patil ha detto di “assumersi la responsabilità morale” di quanto accaduto. Altre teste potranno cadere nei prossimi giorni, tra cui il capo dello stato del Maharashtra, dove sorge Mumbai.
In discussione ad un vertice di maggioranza convocato ieri sera ci sarebbe anche il varo di una nuova legge anti terrorismo e la costituzione di una sorta di Fbi indiano che permetta la coordinazione tra le varie intelligence. La possibilità di un attacco terroristico via mare sarebbe stato previsto dai servizi segreti, ma l’allarme era caduto nel vuoto. A confermare l’indiscrezione è stato lo stesso Ratan Tata, che possiede lo storico hotel Taj Mahal Palace, in un’intervista a una televisione indiana. “Avevamo potenziato la sicurezza all’ingresso principale e impedita la sosta delle auto sotto il porticato – ha detto l’industriale – ma gli attentatori si sono intrufolati da un accesso di servizio secondario”.
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