martedì 18 marzo 2008

Dolore e rabbia a Majnu ka Tila, la colonia tibetana di Delhi

Su Apcom
Nella colonia dei profughi tibetani a Majnu ka Tila c’è un silenzio surreale. Dal 10 marzo, l’anniversario della storica insurrezione anticinese in Tibet, le saracinesche dei negozi sono abbassate, le bancarelle vuote e i vicoli deserti. Ogni tanto qua e là si vedono dei gruppi di monaci che scrutano le fotocopie appese al muro. Sono ritagli di giornale con le dichiarazioni del Dalai Lama, notizie di agenzia e soprattutto foto delle vittime dei massacri di Lhasa. Immagini raccapriccianti di monaci con il viso emaciato, di cadaveri con il petto bucato dai proiettili e di altri fagotti indistinti che giacciono in strada. Sarà difficile per il governo cinese, che nega di aver usato la forza contro i dimostranti, cancellare queste immagini che già circolano sui website della diaspora tibetana.
A Majnu ka Tila vivono circa 5000 tibetani giunti a Nuova Delhi con la prima ondata di profughi che hanno seguito il Dalai Lama fuggito nel 1959 alla persecuzione. E’ un piccolo quartiere, che sorge su una sponda del fiume Yamuna, non lontano dalla Delhi University, pieno di laboratori di artigianato e di economici ristorantini. Di solito è affollato da turisti e studenti della vicina università, ma in questi giorni si è improvvisamente svuotato. Sono quasi tutti a manifestare nella strada davanti al Jantar Mantar, l’antico osservatorio astronomico, l’unico posto a Nuova Delhi dove sono autorizzate le proteste. Da lì, anche oggi, hanno marciato verso l’ambasciata cinese nel quartiere diplomatico di Janakyapuri e davanti alla sede delle Nazioni Unite, ma sono stati bloccati dalle forze dell’ordine.
Tra le nuove generazioni di Majnu ka Tila, che sono nati e cresciuti in India, che vestono all’occidentale e che non si separano mai dal telefonino, prevale un forte risentimento verso il governo indiano. “L’India sta tenendo un comportamento ambiguo, evidentemente sono preoccupati a mantenere buone relazioni con la Cina” dice un ragazzo che esibisce una maglietta con la scritta: “Bring Tibet to the 2008 Games” (porta il Tibet ai Giochi del 2008) e sotto l’indicazione di un website www.supportteamtibet.com. Secondo lui è importante mantenere la pressione internazionale, soprattutto quella degli Stati Uniti. Ricorda che la speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi, dovrebbe incontrare il Dalai Lama venerdì a Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, insieme all’attore Richard Gere, uno dei maggiori sostenitori della causa tibetana.
Poco distante c’è un’agenzia di viaggi che organizza tour in Tibet, ma adesso le autorità cinesi hanno sospeso il rilascio dei visti. Davanti c’è un turista francese che si lamenta perché doveva andare a Kathmandu e poi a Lhasa e aveva già pagato i biglietti aerei. “Non sappiamo quando riapriremo – spiega un altro esule che organizza i bus notturni Delhi-Dharamsala (12 ore di viaggio) – La nostra comunità è sconvolta da quanto sta per accadere in Tibet”. Anche la piazzetta davanti ai due templi, luogo di ritrovo della piccola comunità di profughi, è insolitamente deserta a parte un gruppo di monaci che discute sottovoce. Ci vorrà molto tempo perché ritorni la vita a Majnu ka Tila.

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