martedì 18 marzo 2008

Appello del Dalai Lama alla non violenza: "se la situzione degenera mi dimetto"


Su Il Giornale

E’ un appello disperato quello lanciato ieri dal Dalai Lama sempre più preoccupato per l’ondata di violenza che da una settimana sta insanguinando il Tibet. Di fronte alla dura repressione di Pechino e all’impossibilità di fermare le protesta contro i Giochi Olimpici di agosto, il settantaduenne leader tibetano ha minacciato le sue “dimissioni” se la situazione dovesse degenerare. Dal suo quartiere generale di Dharamsala, in India, ha detto ai giornalisti di essere pronto a dimettersi dalla sua carica di capo dello stato nel caso in cui il confronto tra i dimostranti e la polizia cinese dovesse trasformarsi in un altro bagno di sangue. Il Premio Nobel per la Pace ha ricordato i valori gandhiani della non violenza con un forte richiamo che è indirettamente anche un’ammissione di impotenza ad intervenire in una crisi che sembrerebbe ormai fuori dal suo controllo. “La violenza è grave, contraria alla natura umana, è quasi un suicidio – ha detto - Anche se mille tibetani sacrificassero la loro vita, non cambierebbe nulla”. E poi ha continuato: “Se le passioni delle due parti si placheranno, potremo lavorare insieme” precisando che “dobbiamo costruire dei buoni rapporti con i cinesi per vivere fianco a fianco”. Si tratta di un invito al dialogo che è in chiara contraddizione con le dure denunce di due giorni fa quando aveva accusato il governo di Pechino di “genocidio culturale” e di instaurazione di un “regime del terrore”. Sembrerebbe quasi che il Dalai Lama, dopo i toni battaglieri del 10 marzo, l’anniversario dell’insurrezione anti cinese del 1959 che ha scatenato la rivolta, sia ritornato sui binari pacifisti della sua strategia del “middle path”, la “via di mezzo”, un approccio moderato alla rivendicazione dell’autonomia del Tibet, però contestata da alcune frange radicali della diaspora. Anche ieri da Dharamsala, ha ribadito che “l’indipendenza è fuori discussione” rispondendo così alle accuse mosse alcune ore prima da Wen Jiabao. Il primo ministro cinese, in un intervento televisivo, ha di nuovo puntato il dito contro la “cricca del Dalai Lama” che avrebbe fomentato gli incidenti alo scopo di “sabotare le Olimpiadi” che “da molte generazioni sono il sogno del popolo cinese”. Wen ha detto di “avere le prove ” che gli incendi e i saccheggi - che hanno causato danni per 10 milioni di euro - sarebbero stati premeditati. Ha inoltre aggiunto che la polizia ha “usato moderazione” nel sedare le rivolte in cui avrebbero perso la vita circa un centinaio di persone secondo stime del governo tibetano in esilio (mentre il bilancio delle autorità cinesi parla di 13 morti). Su alcuni siti internet circolano però alcune immagini raccapriccianti dei cadaveri di giovani tibetani e monaci vittime della repressione della polizia. Le foto sono state esposte anche durante i cortei a New Delhi e sui muri della piccola colonia degli esuli tibetani di Majnu Ka Tila, dove da una settimana è in corso una serrata generale.
Anche oggi in diverse parti del Tibet le forze dell’ordine sarebbero entrate in azione per fermare le proteste che sono dilagate del vasto territorio himalayano. Secondo quanto denuncia il governo in esilio, 19 tibetani sarebbero stati uccisi da colpi di arma da fuoco a Manchu, nei pressi di Lhasa, durante una manifestazione. Intanto la capitale tibetana rimane presidiata dai carri armati e continuerebbero anche i rastrellamenti casa per casa, come riferiscono dei testimoni oculari citati da Radio Free Asia. Tuttavia, la televisione di stato Cctv, l’unica a poter entrare a Lhasa, ha mostrato le immagini di una città tranquilla con i negozi aperti e i bambini che vanno a scuola. Sempre secondo la tv pubblica, un centinaio di rivoltosi si sarebbero arresi alla polizia dopo l’ultimatum scaduto alla mezzanotte di lunedì.

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