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In un caldissimo pomeriggio dell’11 maggio 1998 l’allora premier Atal Behari Vajpayee convocò i giornalisti nella sua residenza di Race Court a Nuova Delhi per comunicare che l’India aveva appena compiuto con successo il suo secondo test atomico nel poligono del deserto di Pokhram, in Rajastastan. Gli scienziati indiani in gran segreto avevano fatto esplodere tre bombe nucleari nello stesso sottosuolo del primo test condotto nel 1974 in codice “Smiling Buddha”.
Per l’India fu una giornata di festa e di esaltazione patriottica, mentre per resto del mondo fu una paurosa doccia fredda. Le superpotenze Stati Uniti e Cina furono prese di sorpresa dalla nuova sfida dell’India che dopo il fallito test atomico del 1995 aveva promesso a Washington di abbandonare il programma. L’operazione “Shakti” (in sanscrito signica Forza) dell’11 e 13 maggio fu preparata in due mesi da un quartetto di fisici indiani che per non destare sospetti si erano vestiti come soldati e usavano nomi in codice. I laboratori erano stati camuffati per sfuggire alle immagini satellitari Usa e l’area dell’esplosione trasformato in un campo da cricket, come racconta “The Times of India” in un articolo dedicato ai dieci anni del test. Lo stesso governo di Vajpayee, anziano leader del Bjp, il partito indu nazionalista oggi all’opposizione, fu avvertito solo 48 ore prima.
Le conseguenze furono severe: una risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e pesanti sanzioni sull’importazione di tecnologia nucleare e a “uso duale”. Oltre che dalla Cina la reazione più dura arrivò dal Pakistan che dopo due settimane sperimentò cinque ordigni nucleari tra le montagne del Baluchistan che fecero di nuovo tremare il mondo. Paradossalmente il confronto portò l’anno successivo alla firma di un trattato di pace tra i due rivali asiatici.
Non ci sono celebrazioni particolari in India per il decimo anniversario di Pokhram II. Il luogo del test, un’area di circa 3,5 chilometri quadrati, è oggi chiuso e protetto dall’esercito. Nel villaggio di Khetolai, che sorge ad una manciata di chilometri dal “cratere”, vivono circa 300 famiglie che non hanno ricevuto alcun beneficio da cosa è avvenuto sotto i loro piedi. Subito dopo l’esplosione era sorta la preoccupazione di una possibile contaminazione radioattiva in superficie, ma secondo il Bhabha Atomic Research Centre che ha monitorato la regione per due anni, i valori sarebbero regolari. Nei pressi del villaggio, sulla strada da Jodhpur a Jeisalmer è stato aperto anche un museo e un ristorante con l’idea di creare un’attrazione turistica. Ma pochi ne sono a conoscenza perché non c’è stata una sufficiente promozione.
Nei giorni scorsi l’ex presidente indiano, il mussulmano Abdul Kalam, che è stato uno dei quattro scienziati a organizzare l’esperimento, ha detto in un discorso che l’India “non ha bisogno di un terzo Pokhram “perché non c’è bisogno di metterci alla prova di nuovo a meno che non ci siano delle innovazioni tecnologiche da sperimentare”. Secondo Kalam, che è anche il padre del programma missilistico, i test hanno contribuito al progresso dell’India perché hanno spinto i suoi scienziati a lavorare in “autosufficienza” in un regime di isolamento internazionale.
E’ stato il presidente americano George W. Bush due anni fa ad offrire a Nuova Delhi una collaborazione in materia di energia nucleare in deroga allo status quo internazionale. Il controverso patto, criticato dai partiti comunisti indiani e anche dalla comunità scientifica che teme interferenze americane, deve ancora avere l’ok definitivo. Permetterebbe all’India di sviluppare le sue centrali nucleari e quindi diminuire la sua dipendenza dagli idrocarburi limitando quindi anche l’impatto sul cambiamento del clima.
domenica 11 maggio 2008
Oggi il decimo anniversario di Pokhran II
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